Famiglia
Comunicazione e csr, la ricetta di Valerio Di Bussolo
Pagine blu/ Il whos who della responsabilità sociale
Chi è: Valerio Di Bussolo, responsabile comunicazione e relazioni esterne di Ikea Italia
Età: 45 anni
Studi: laurea in Economia e commercio
A chi riporta: all?amministratore delegato
Curriculum: collaborazioni giornalistiche durante l?università e lavoro in diverse agenzie di pubblicità. In Ikea dal 1992 come responsabile pubblicità e catalogo, poi alle relazioni esterne che, a metà degli anni 90, sono state investite anche di tutto il tema della csr
Stato: single
Passioni: gli amici, gli spettacoli con gli amici, i viaggi con gli amici
Di Bussolo è un uomo di comunicazione a tutto tondo. Lo si vede dalla sensibilità verso una dimensione fondamentale della csr in azienda: l?essere un insieme di relazioni, di processi comunicativi tra le diverse componenti aziendali. «La csr in Italia è fondamentalmente un meccanismo top down», dice. «In Ikea non è così, abbiamo una struttura molto orizzontale e tutti i processi sono fortemente partecipati e condivisi: in questo senso, oggi, la csr è più orientata alla promozione delle persone e all?organizzazione interna che non alla comunicazione esterna del nostro impegno sociale. Ad esempio, la lotta allo sfruttamento dei bambini è un valore/obiettivo perseguito a fondo nel rapporto con i fornitori, ma comunicato prioritariamente ai nostri collaboratori».
La fortissima volontà di concertazione con tutte le parti coinvolte può però far perdere in tempismo e immediatezza nell?implementare i progetti? «Alla mia azienda suggerirei di rischiare di più, anche a costo di accollarsi qualche, calcolata, possibilità di errore».
Sul volontariato, con cui Di Bussolo si confronta regolarmente sia in Italia che in Svezia, patria di Ikea dice: «Lo scatto che la società italiana deve fare è quello di considerare il non profit come un comparto produttivo con regole, meccanismi e professionalità assolutamente assimilabili a quelle del profit, da cui si differenzia solo per un obiettivo profondamente diverso». Anche negli stipendi e nelle carriere? «Assolutamente sì, compresi i meccanismi di reclutamento: nel mondo anglosassone il non profit cerca personale con gli annunci sul Financial Times e con i cacciatori di teste, e fa bene. Essere motivati non c?entra col guadagnare di meno. Infine, il non profit può permetterselo. Anzi, l?assenza dell?obbligo di remunerare gli azionisti libera risorse che possono essere investite sulle persone».
Professionista del marketing formata alla scuola Nestlé
Chi è: Caterina Torcia, Head of Corporate Social Responsibility
Età: 40 anni
Studi: laurea in Lettere e master in Comunicazione e marketing
A chi riporta: alla direzione Public and Legal Affairs
Curriculum: dal 1990 al 1996 in Nestlé. In Vodafone si è occupata di ufficio stampa, comunicazione istituzionale sul territorio, relazioni esterne. Da un anno è responsabile della csr
Stato: Sposata, un figlio
Passioni: la natura, passeggiate in montagna o in luoghi silenziosi
Caterina Torcia ha una storia di professionista del marketing, cominciata in Nestlé, un posto considerato da questo settore del mercato un vero e proprio marchio di garanzia: ?navi scuola?, le chiamano gli addetti ai lavori, le grandi multinazionali dove le campagne di promozione diventano casi da manuale.
Nel caso di Caterina, poi, parliamo del prodotto simbolo del gigante alimentare svizzero: Nescafé, seguito proprio nel momento del grande rilancio della marca e del prodotto verso il pubblico giovanile. Del fatto che Nescafé fosse anche il prodotto più boicottato al mondo, Caterina non sapeva nulla. «Allora, a venticinque anni e fresca di laurea, non sapevo nulla delle accuse sulle politiche di marketing del latte in polvere per l?infanzia» dice. «Me ne sono occupata proprio nel ruolo professionale. Se ne discuteva in Nestlé, il problema non era certo ignorato. Anzi proprio in quel periodo, gli anni 90, l?azienda ha cominciato ad abbandonare l?atteggiamento difensivo mantenuto fino a quel momento per diventare propositiva e cercare soluzioni. Sono contenta di aver partecipato a questo processo».
In Vodafone le cose sono molto diverse: l?immagine internazionale è buona e non ci sono grosse questioni aperte sul fronte dell?etica. La Fondazione Vodafone fa da tramite privilegiato con il terzo settore. Tutto facile allora? «I valori etici, in generale, sono condivisi nella quotidianità, c?è rispetto per gli stakeholder, anche deboli, come i piccoli fornitori. È più difficile portare avanti progetti sociali strutturati, che hanno bisogno di responsabilità definite e obiettivi misurabili e verificabili: ad esempio, un piano di risparmio energetico, che tra l?altro è un punto che mi sta molto a cuore. In questo emerge una componente importante del mio lavoro: spingere i colleghi a fare cose, anche se non sono parte dei loro compiti istituzionali».
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