Non profit

Competizione, vicolo cieco Ora Sennett ce lo dimostra

di Gabriella Meroni

Collaborare, lavorare insieme, darsi un obiettivo comune: è questo il nuovo modo per essere davvero protagonisti. Ciascuno per sé, con quello che sa e può fare. Ne è convinto il presidente di Legacoop, Giuliano Poletti, che di fronte della diffusione (accompagnata da crescente approvazione) delle idee di Richard Sennett non può che tirare un sospiro di sollievo. «Era ora che anche il mondo della cultura se ne accorgesse!».
Di che cosa, Poletti?
Di quello che il settore della cooperazione va dicendo, e dimostra, da un centinaio d’anni: non è la ricerca della performance la molla che porta al miglioramento dell’economia e della società. E neppure del singolo individuo che “ce la fa”. Per decenni ce l’hanno fatto credere, dimenticando però che la competizione spesso esalta anche gli aspetti peggiori dell’uomo, perdendo di vista il valore. Se si collabora, questo rischio si riduce. Era ora che questa evidenza per così dire empirica assumesse la dignità di fatto scientificamente provato.
Collaborare come condizione per essere protagonisti, quindi?
È la ricerca del bene comune, portata avanti insieme, che rende protagonista non solo il singolo, ma anche le organizzazioni sociali. Questa crisi ha messo sotto gli occhi di tutti l’inadeguatezza delle risposte che sia lo Stato sia il mercato privato hanno finora proposto ai bisogni delle persone. Ci sono domande che vengono dal basso che il mercato non ritiene interessanti perché non esprimono potenziali di profitto, e che vengono rimbalzate dal settore pubblico che non ha mezzi né risorse per occuparsene. Se non entra in campo un soggetto diverso, capace di protagonismo sociale e di cooperazione, lo stallo continua.
Questo soggetto è il mondo della cooperazione, secondo lei?
Non dico che sia l’unico, per carità. Ma è uno dei pochi che da cent’anni resiste agli attacchi sia del liberismo che del comunismo, dimostrando che esiste una terza via.
Il libro di Sennett porta in luce la domanda sul presunto deficit di pensiero che c’è oggi nell’esperienza della cooperazione.
Il deficit di pensiero non è tanto, e comunque non solo, nella cooperazione; io lo vedo molto di più in quelle teorie economiche e sociali che ancora oggi continuano imperterrite a utilizzare vecchi stereotipi. Quelle stesse teorie che non spiegano, per esempio, come mai ci sono consumatori che scelgono di comprare una banana prodotta con le regole del commercio equo, nonostante costi di più, o quale sia la logica che porta una banca che fa microcredito a prestare denaro ai nullatenenti. Ci sono nuovi elementi culturali e sociali che il pensiero unico non aveva considerato, e per questo ha fatto il suo tempo.
È per questo che il modello cooperativo viene spesso ritenuto residuale?
Questa è la conseguenza della vittoria storica del pensiero economico liberista, ma c’è un ma: il modello cooperativo, pur bistrattato, è ancora lì. È vivo, opera, non ha risolto tutti i problemi dei lavoratori ma li ha stimolati a prendere coscienza della loro funzione e importanza, a riflettere sulla relazione tra individuo, vita personale e lavoro e ciò che dal lavoro deriva. Trovo che siano temi molto moderni, altro che residuali. Ripeto: il modello cooperativo non ha la pretesa di essere “la” soluzione, ma una forma capace al pari di altre, o forse anche meglio, di interpretare i bisogni delle persone. E poi è democratica: per noi una testa è un voto, per certa economia un euro è un voto.
E quanto ai risultati del modello cooperativo?
Se oggi nella cooperazione lavorano 1,2 milioni di persone, qualcosa vorrà pur dire. Quanto al modello, è anch’esso in evoluzione: accanto alle cooperative di produzione e lavoro e di consumo ci sono le cooperative sociali, e anche le società tra professionisti, appena nate ma con un futuro tutto da scrivere. Non temiamo certo la prova dei risultati. Con umiltà, ma anche con orgoglio, siamo sempre più convinti che la strada della cooperazione valga la pena d’essere percorsa.

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