Formazione

Commercio: Cancun chiama Miami

Si è aperto ieri a Miami, la conferenza fra i 34 paesi che stanno negoziando l'Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA o Free Trade Area of the Americas)

di Redazione

Si è aperto il 16 novembre a Miami, l’attesa conferenza ministeriale fra i 34 paesi che stanno negoziando l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA o Free Trade Area of the Americas – FTAA). Un appuntamento importante, non solo per i paesi interessati, ma anche per il resto del mondo poiché il progetto di cui si discute a Miami mira a creare il più grande blocco commerciale del pianeta, riunendo 800 milioni di persone. L’ALCA vide i suoi albori nel 1994, in occasione del Summit delle Americhe, svoltosi anche allora a Miami, sotto la guida di Bill Clinton, ma la sua genesi è frutto del Presidente Bush (il padre dell’attuale presidente in carica). L’obiettivo era quello di creare un accordo per promuovere la liberalizzazione del commercio e degli investimenti in tutti i paesi dell’emisfero occidentale e Bush figlio aspira a concludere il sogno del padre ospite del fratello Jeb, governatore della Florida. Il modello per l’ALCA era e rimane il NAFTA, l’accordo firmato nel 1993 da USA, Canada e Messico. Ed è proprio l’esperienza messicana nel NAFTA che preoccupa i popoli del sud America. Dopo dieci anni, è vero che gli investimenti esteri sono aumentati, è pure vero che l’export messicano è cresciuto notevolmente (da 51 miliardi di dollari nel 1993 a 160 miliardi nel 2002) ma forse questo era proprio l’obiettivo di America e Canada, l’aspirazione dei messicani era di raggiungere un reddito dignitoso e questa aspirazione è rimasta mortificata, visto che la Banca mondiale, proprio quest’anno ha confermato che su 100 milioni di abitanti, 45 milioni di messicani vivono con meno di 2 dollari al giorno e 10 in condizioni di estrema povertà. Il NAFTA non è servito a ridurre le ineguaglianze, non è servito a ridurre la povertà, anzi in dieci anni (è sempre la Banca mondiale a ricordarlo) il gap fra ricchi e poveri è cresciuto. Quello che la gente desidera è un accordo che serva a vivere, non a produrre di più e a minor costo per essere esportato altrove. Il rischio paventato dai movimenti latino-americani è di seguire la stessa sorte del Messico. Gli Stati Uniti invece credono molto in questo progetto, considerato da Bush come una “pietra angolare” della sua visione del libero commercio nell’emisfero occidentale”, progetto che ovviamente mira ad “accelerare la crescita economica, promuovere l’integrazione regionale e rafforzare le democrazie”. Nel concreto l’obiettivo sognato da Bush, è un accordo quadro che comprenda agricoltura, regole di proprietà intellettuale, prodotti industriali, servizi, investimenti e appalti governativi. Insomma tutto quello che si sta negoziando in sede WTO e per cui è fallita la conferenza di Cancùn. Ed infatti subito dopo Cancùn, il presidente brasiliano Lula aveva messo in guardia Bob Zoellick, il capo negoziatore USA, dal voler ottenere a Miami ciò che gli era sfuggito di mano in Messico. Da allora l’attività negoziale è stata frenetica. E’ di ieri la notizia di un accordo fra gli Stati Uniti e i paesi del Mercosur, cioè Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, che potrebbe evitare il fallimento del vertice in cambio di una certa flessibilità. Questa flessibilità si tradurrebbe nel non obbligo per tutti i paesi di impegnarsi in tutte le parti dell’accordo, il che significherebbe che alcune parti (tipo investimenti e appalti pubblici) potrebbero essere firmati solo dai paesi interessati. In sede WTO, invece continua il lavoro certosino del presidente del consiglio generale Carlos Perez De Castillo e del direttore generale Supahai Panitchpakdi per stabilire una piattaforma negoziale condivisa, da proporre all’incontro del 15 dicembre. Il rilancio dei negoziati è fortemente voluto dai governi dei PVS e vede invece un atteggiamento prudente e recalcitrante da parte dei due maggiori global player: USA ed UE. L’Unione europea prosegue la sua riflessione interna, Lamy continua a fare l’offeso per lo schiaffo di Cancùn, ma a breve finirà anche questa sceneggiata. Il 14 si è svolto un incontro del comitato 133 a Roma per discutere la nuova proposta di Lamy; la sua approvazione da parte della Commissione è prevista il 26 novembre, tornerà poi al C133 il 28, sarà esaminata dal Consiglio dei ministri del commercio il 2 dicembre e adottata l’8 dicembre dal Consiglio degli Affari generali e Relazioni Esterne (Consiglio, presieduto dal Ministro degli Affari esteri Franco Frattini). Quali novità contiene? In realtà ben poche. Visto che sarebbe improponibile tornare a riproporre i quattro Singapore Issues, la Commissione propone di avviare i negoziati su due di esse: regole di facilitazione al commercio e appalti pubblici (limitatamente alle regole di trasparenza) mentre per investimenti e regole di concorrenza propone accordi plurilaterali lasciando aperte due ipotesi negoziali: o tutti i paesi membri partecipano ai negoziati e poi solo alcuni ratificano l’accordo, oppure solo i paesi che intendono implementarlo partecipano ad essi e alla ratifica finale. L’altra novità e relativa alla riforma del WTO; come si ricorderà Lamy aveva sfogato la sua rabbia per il fallimento di Cancùn accusando l’organizzazione di avere una struttura medioevale. La riforma proposta nell’immediato è però davvero piccola, in pratica si riduce a proporre maggiori poteri al direttore generale e a toglierli al ministro del paese ospitante gli incontri ministeriali, così da evitare che il Derbez di turno decida di chiudere anzitempo una conferenza, come accaduto in Messico. Del resto i gruppi imprenditoriali erano stati molto chiari con Lamy. Il 30 ottobre, gli industriali europei, riuniti nella Tavola Rotonda Europea, avevano reso pubblico un comunicato in cui affermavano che “questo è il momento giusto per l’UE per tornare ad impegnarsi con forza insieme agli altri partners commerciali nei temi del Doha round”. La European Round Table degli industriali raggruppa gli imprenditori delle maggiori compagnie europee ed il comunicato diffuso rappresenta un forte segnale di disaccordo verso l’atteggiamento del commissario Lamy. Per gli imprenditori “non è il momento per essere distratti da un’agenda per riformare il WTO”. L’idea di due accordi plurilaterali è stata discussa a Ginevra in una green room il 12 novembre, ma non è piaciuta a molti PVS. Ad essere sinceri non entusiasma neppure i ministeri di molti paesi europei, convinti che il WTO abbia senso se gli accordi sono sottoscritti da tutti i paesi membri, ma la sensazione è che questa opzione rappresenti un modo per salvare la faccia a Lamy. A questo proposito solo la Gran Bretagna ha manifestato il suo dissenso alla proposta di Lamy in seno al comitato 133 di venerdì 14. Fra i paesi membri del WTO, i più contrari sono ancora i paesi africani e quelli ACP, mentre il Brasile si è detto “aperto” a discutere tutti e quattro i Singapore issues, facendo capire che tutto dipende dalle concessioni su un altro tavolo: quello agricolo. Di agricoltura invece non dicono nulla i documenti interni UE, quasi che non fosse questo il problema primario della maggioranza dei paesi membri del WTO. Soprattutto non pare che l’UE sia conscia che su questo tema verte un problema radicale di incompatibilità fra i suoi obiettivi e il rispetto delle regole di non discriminazione del WTO. Lamy a Cancun in un incontro coi paesi ACP (Africa, caraibi e Pacifico) aveva detto a chiare lettere che i sussidi interni non sono cancellabili perché l’Europa vuole mantenere una fetta di agricoltura. L’UE da anni sostiene attraverso il concetto di multifunzionalità, il diritto di finanziare un settore che genera poca occupazione ma che considera strategico. Il problema non è la multifunzionalità ma il fatto che questo diritto appare negato agli altri e soprattutto al fatto che il prezzo di questa strategia ricade sul resto del mondo, soprattutto sui poveri del mondo. Il fatto che un colosso come l’UE continui a proteggere i propri interessi interni a spese del resto del mondo costituisce inoltre quella perdita di credibilità e di fiducia nel WTO che i documenti UE post Cancùn lamentano negli altri paesi. L’UE non se ne rende conto ma l’unica via d’uscita sarebbe proprio quella che i movimenti chiedono da anni: escludere l’agricoltura dalle sovranità del WTO. Non è detto che risolverebbe i problemi del sud del mondo ma certo eviterebbe all’UE di fare salti mortali per conciliare l’inconciliabile. Il problema per i paesi del sud del mondo è che USA ed UE su questo tema hanno interessi coincidenti e per entrambi non pare possibile fare concessioni nell’immediato, probabilmente la loro strategia è di guadagnare tempo, almeno l’intero 2004 durante il quale potrebbero cambiare i volti dei negoziatori visto che l’anno prossimo scade il mandato della commissione europea e gli Stati Uniti eleggeranno un nuovo (si spera) presidente. Nel frattempo, dietro le quinte, le diplomazie occidentali stanno lavorando per dividere le alleanze del sud del mondo e ammorbidire le loro posizioni. Sembra che stia accadendo per il cotone, uno dei problemi emersi a Cancùn (terribilmente indigesto agli americani), che dovrebbe essere fra i primi temi da trattare alla ripresa dei negoziati. (riguardo al cotone vedi www.retelilliput.org/stopwto/wto/allegati/cotone.pdf) Ma in questi giorni i riflettori sono tutti puntati su Miami, anche per comprendere se il paese leader del G21 di Cancùn, il Brasile, saprà tener testa alla volontà americana di realizzare il sogno di Bush senior.


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