Non profit

“Commerciale” o “non commerciale”, il nodo da sciogliere della riforma del Terzo settore

Gli enti dovranno sottoporsi ad un test e confrontare i costi e i ricavi relativi ad ogni singola attività. L’attività è considerata non commerciale solo se i ricavi non superano i costi del 5%. Una disposizione che pone almeno cinque ordini di problemi

di Marco D'Isanto

Sono almeno quattro anni che si discute della Riforma del Terzo Settore ed il dibattito si è concentrato prevalentemente su alcuni aspetti di natura civilistica, poco infatti si è dibattuto, se non fra i pochi addetti ai lavori, della fiscalità degli enti del Terzo Settore. L’argomento non è certo di semplice lettura ma data la sua importanza per la vita delle organizzazioni non lucrative conviene iniziare a discuterne. Peraltro, a parere di chi scrive, è la parte meno riuscita della Riforma e non pochi sono i problemi sul tappeto.

La Riforma introduce un nuovo criterio per individuare la natura commerciale o “non commerciale” dell’ente. Il cuore delle disposizioni fiscali è contenuto nell’art. 79 secondo il quale le attività di interesse generale si considerano di natura non commerciale (e quindi non tassabili) quando sono svolte a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi, tenuto conto anche degli apporti economici delle pubbliche amministrazioni e salvo eventuali importi di partecipazione alla spesa previsti dall'ordinamento.

Nella sostanza un Ente del Terzo Settore dovrà sottoporre le attività che conduce ad un test e confrontare i costi e i ricavi relativi ad ogni singola attività. L’attività è considerata non commerciale solo se i ricavi non superano i costi del 5%.

Quali sono i problemi che si riscontrano di fronte a questa disposizione?

  1. Innanzitutto bisogna stabilire con precisione quali ricavi debbono essere presi in considerazione. Il comma 6 dello stesso art. 79 dispone infatti che i corrispettivi versati dagli associati degli enti, ad esclusione delle sole quote associative, siano considerati sempre di natura commerciale. Questo produce due conseguenze. La prima è che questa presunzione di commercialità pare escludere questi proventi dal test di commercialità. Non viene chiarito infatti se questi proventi, al pari di tutti gli altri, debbano concorrere al test di commercialità per decidere o meno la natura commerciale dell’attività. Si consideri per esempio una associazione teatrale: i corrispettivi specifici versati dagli associati per la partecipazione ai laboratori teatrali diventeranno imponibili ipso jure? La seconda è che se prevalesse l’interpretazione secondo la quale i corrispettivi sarebbero esclusi dal test di commercialità in quanto ricavi che per presunzione assoluta, al pari di quelli derivanti dalle attività diverse, si considerano commerciali, ci troveremmo di fronte all’ipotesi che le organizzazioni mutualistiche, che pure hanno rappresentato un pezzo importante del Terzo Settore, sarebbero facilmente considerati Enti commerciali. Il paradosso sarebbe infatti che le organizzazioni che derivano prevalentemente i propri proventi per attività condotte nei confronti dei non associati avrebbero un trattamento di maggior favore rispetto alle organizzazioni la cui attività è diretta nei confronti dei propri soci. In presenza infatti di corrispettivi il cui ammontare non generi ricavi superiori ai costi, quello versato dai non associati assumerebbe la veste di natura non commerciale, mentre, a diversa conclusione, si dovrebbe giungere per quello versato dagli associati. Si tratta del rovesciamento del paradigma che ha finora informato i principi tributari degli enti associativi.
  2. Analogo pasticcio, anche se di segno opposto, è relativo al trattamento tributario dei contributi pubblici. Da una parte infatti vengono esplicitamente richiamati tra i proventi che devono concorrere al test di commercialità (c. 2 dell’art. 79) dall’altra sembra che venga prevista una presunzione assoluta di non commercialità (c. 4 e 5bis dell’art.79). Tre disposizioni contenute nello stesso articolo che nei fatti configgono e potrebbero condurre ad esiti interpretativi molto diversi.
  3. Il test di commercialità potrà essere condotto solo alla fine del periodo d’imposta. Il mutamento della qualifica fiscale avverrà infatti con regole diverse rispetto a quelle esistenti e contenute nell’art. 149 del TUIR. La normativa fiscale recata dalla Riforma prevede che un’organizzazione (Associazione o Fondazione), qualora effettui un’attività commerciale anche per un periodo molto limitato (come ad esempio l’organizzazione di un evento culturale), perda la qualifica di ente non commerciale nella misura in cui i ricavi commerciali siano prevalenti rispetto a quelli istituzionali. La qualifica di Ente del Terzo Settore commerciale, pur non pregiudicando né la forma giuridica né la natura non lucrativa dell’ente, proietta, dal punto di vista tributario, queste organizzazioni nel campo delle imprese commerciali con tutte le conseguenze in termini di oneri fiscali sia ai fini iva che delle imposte dirette e degli obblighi contabili. L’ente, divenuto commerciale, si troverebbe dunque di dover a ritroso riqualificare tutta la propria posizione fiscale.
  4. Nessuno si è seriamente preoccupato di armonizzare le nuove disposizioni, valevoli solo ai fini delle imposte dirette, con la disciplina dell’iva che risulta immutata. Anche qui ci troviamo di fronte al paradosso che una associazione culturale del Terzo Settore potrebbe dover considerare commerciali le entrate derivanti dai propri soci ma quegli stessi proventi sarebbero non imponibili ai fini iva . E’ sostenibile un meccanismo di questo tipo?
  5. Le disposizioni fiscali avranno inoltre un impatto importante ai fini della formazione del bilancio. Ogni organizzazione dovrà infatti innanzitutto determinare i costi e i ricavi relativi alle diverse attività di interesse generale condotte. In secondo luogo, dovrà esporre le erogazioni liberali, le quote associative e le raccolte dei fondi con apposito rendiconto specifico. In terzo luogo dovrà esporre i costi e i ricavi relativi alle attività diverse da quelle di interesse generale con buona pace di ogni criterio di semplificazione. Questo fa presumere una sorta di contabilità industriale per centri di costo. Sarà infatti necessario dover imputare ogni singolo costo all’attività di interesse generale, alle attività diverse o alle attività puramente istituzionali. Meccanismo questo che risulterà insostenibile per molti Enti del Terzo Settore che, bisognerebbe ricordarselo, piuttosto che essere delle complesse centrali amministrative, sono enti impegnati prevalentemente a svolgere sul campo attività complesse e fragili dal punto di vista economico

Se Atene piange Sparta non ride. Se molte norme civilistiche sono ancora oggetto di interpretazione e l’Unione Europea attende ancora la notifica del provvedimento, l’amministrazione finanziaria tace quasi del tutto.

E’ convinzione di chi scrive che ci sarebbe ancora tempo per riflettere sulle norme che abbiamo sinteticamente passato in rassegna. Tempo che dovrebbe servire soprattutto per cambiarle e orientarle verso un criterio di maggiore armonia e semplicità.


*commercialista, esperto di non profit, associazionismo e imprenditoria culturale

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