Cultura

Commento

Colpa di uno Stato che tratta tutti come sudditi

di Redazione

La strage di fine anno davanti alla chiesa copta di Alessandria s’inserisce purtroppo in un vasto quadro di attacchi e violenze anti cristiane che stanno insanguinando varie parti del mondo. Una concezione aberrante dell’identità sta riproducendo il mostro della pulizia etnica e, anche dove non si giunge a questi estremi, un po’ dappertutto il pluralismo paga le spese di una globalizzazione che diffonde più incertezza e timore di quanto sappia infondere speranze e aprire nuove prospettive.
Il caso dell’Egitto è particolarmente preoccupante: i copti, infatti, non sono una parte residuale della popolazione, ma il loro numero si aggira attorno al 10% dei cittadini. Totalmente arabizzati, conservano solo a scopo liturgico la loro antica lingua, e anche attraverso i nomi propri sono spesso indistinguibili dai loro connazionali musulmani? bisogna risalire al nome del padre o del nonno per identificarli. Eppure la legge non consente a nessuno di loro di insegnare l’arabo in alcuna scuola, gli alti gradi dell’amministrazione pubblica e delle professioni sono loro interdetti e svariate forme di discriminazione e pregiudizio complicano la loro vita.
Chi si sente un figlio indesiderato, finisce per rispondere con lo stesso tono: molti di loro dichiarano (in arabo) di non essere arabi, ma discendenti dei Faraoni: i soli egiziani doc, quindi. Tra i numerosi che sono immigrati in Italia pochi insegnano la lingua d’origine alle nuove generazioni e persino i nomi dei preti e la stessa liturgia sono stati italianizzati: un desiderio d’assimilazione più che di un’equilibrata integrazione esprime il nodo irrisolto del loro rapporto coi musulmani. Un cristiano giordano, palestinese o libanese ha in genere meno problemi con la propria “arabicità”. Eppure non sono mancate forme di stretta collaborazione e profonda solidarietà quando si trattava di combattere insieme il colonialismo britannico! Ma quel nazionalismo laico ha presto lasciato il posto alla deriva islamista il cui successo è alimentato da troppe delusioni e fallimenti: dalla cocente sconfitta della guerra del 67 contro Israele alle quotidiane vessazioni di un sistema clientelare e corrotto.
Neppure qui e nemmeno tra le seconde generazioni è facile far incontrare giovani egiziani copti e musulmani: i primi sono segnati da un’atavica e comprensibile diffidenza, i secondi sanno ben poco di quel che avviene nel Paese d’origine. Eppure, se una soluzione potrà profilarsi, dipenderà unicamente da una maggior capacità di “portare gli uni i pesi degli altri”. Intimoriti che le cose possano ancora peggiorare, i copti spesso si limitano ad augurarsi il mantenimento dello status quo, mentre molti musulmani si illudono che l’islamizzazione sia l’unica alternativa alle contraddizioni e all’iniquità del regime.
Spostare l’attenzione sul piano religioso può essere un alibi per non affrontare il tema decisivo dei diritti di tutti i cittadini, poco importa che facciano parte della maggioranza o delle minoranze, di fronte a uno Stato indifferente o arrogante che mira soltanto a continuare a trattarli tutti come semplici sudditi.

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