Comitato editoriale
Hate speech: perché ai nostri figli tutte queste parole d’odio sembrano normali?
«La quotidianità dei nostri ragazzi è infarcita di hate speech: il punto è che non c’è la percezione della gravità di sistema del linguaggio d’odio, perché quello è l’unico mondo che i ragazzi conoscono. Anche quando c'è una reazione, spesso è un "regolamento di conti" in cui l’adulto non esiste mai»: la riflessione di Emanuele Russo dopo l'esperienza in 410 scuole con il progetto #iorispetto
«Il bullismo è la punta iceberg, ma la quotidianità dei nostri ragazzi è infarcita di discorso d'odio: sui social hanno costantemente esperienza di ciò. Solo che quasi nessuno lo percepisce come tale, non percepiscono la differenza fra questo e discorsi e relazioni basati sul rispetto… di conseguenza non lo vivono come problema. Anche noi adulti siamo bersagliati dall’hatespeech, ma siamo cresciuti in un contesto diverso, lo riconosciamo e capiamo come neutralizzarlo. I ragazzi che oggi sono alle medie, no». A parlare così è Emanuele Russo, referente per i progetti di Educazione alla Cittadinanza Globale (CGE) di CIFA. Con il progetto #iorispetto, cofinanziato dall’AICS e partito a marzo 2018, hanno coinvolto 410 classi delle scuole secondarie di primo grado, in 130 comuni, con l’obiettivo di rafforzare le competenze professionali dei docenti sul contrasto al discorso d'odio, alla cittadinanza attiva e all’inclusione sociale, così da favorire, attraverso metodologie partecipative, l’attivazione consapevole degli alunni per il contrasto alla discriminazione e ai discorsi d’odio.
«Il progetto è un laboratorio di contrasto al linguaggio d'odio, diverso da un progetto sul bullismo. Siamo interessati a definire cos’è il discorso d’odio, dando a bambini e insegnanti strumenti per riconoscerlo, identificarlo e affrontarlo», spiega Russo. E cos’è l’hate speech? «Qualcosa che non è solo la singola parola o insulto, magari su momento di rabbia… il discorso d’odio è una narrazione protratta nel tempo che mina la dignità della persona ed è un primo passo lungo una china che può arrivare anche al crimine d’odio. In persone che stanno costruendo la loro personalità, fa la differenza crescere o no in un clima in cui è legittimo e accettabile denigrare un’altra persona per caratteristiche personali, religiose, etniche… Se questo è accettabile, non avranno gli strumenti interiori per opporsi e anche chi ne è bersaglio rischia di derubricare il tutto come una presa in giro. Ecco, noi abbiamo lavorato su questo, sul riconoscere, decodificare e imparare ad affrontare».
Per Russo non è tanto questione di competenze social: «già alle medie la dimensione del rapporto con i social è pervasiva, ci saranno uno o al massimo due ragazzi per classe che non hanno lo smartphone o non sono sui social, peraltro devo dire che questa cosa almeno in apparenza non viene denigrata. Conoscono bene le dinamiche dei social e le usano, il punto è che non c’è la percezione della gravità di sistema del linguaggio d’odio, perché quello è l’unico mondo che conoscono». Il tema è questo. E il fatto che, di conseguenza, i ragazzi «fanno fatica a capire la necessità di far uscire questo discorso dalla sfera privata, dalla logica del “regolamento di conti”. Difficile far passare che questa cosa deve essere affrontata da tutti, altrimenti il problema si sposta ma non si risolve. Ognuno se la gestisce da solo ed è anzi un vanto sapersi difendere da solo. Abbiamo visto anche una discreta capacità di rispondere come "branco" se viene toccato un amico particolarmente importate, ma quel che colpisce è che l’adulto non esiste mai in queste dinamiche regolamenti di conti. Si difendono e non prevedono quasi mai l’intervento di adulto, perché esiste negli adulti un tale gap di conoscenza sui social e sul digitale, che un adulto non viene preso in considerazione nella soluzione perché non sa neanche quali sono i social che usano i ragazzi. Per questo chi ha più di 40 anni, dobbiamo tutti metterci a studiare».
Il progetto #iorispetto, di cui CIFA è capofila, vede un partenariato composto anche da Amnesty International Italia, Ammi, Corep e Icei. Fra gli strumenti utilizzati c’è uno speciale kit di Amnesty Kids dedicato all’hatespeech, con quaderni operativi per alunni per attivarsi e diventare cittadini attivi; il teatro sociale di comunità; l’incontro con mediatori multiculturali. «Non entriamo in classe chiedendo “avete vissuto situazioni di hatespeech? Come vi siete comportati?”, ma esordiamo chiedendo ai ragazzi “sapete che le parole hanno pesi diversi e possono fare male?”», continua Russo. In 410 classi è stato distribuito il kit costruito apposta per il progetto, con cinque unità didattiche, AMMI ha partecipato con un mediatore che ha affrontato la dimensione multiculturale del discorso d’odio, COREP ha messo la sua esperienza nelle metodologie teatrali e partecipative per affrontare l’hatespeech in classe e non lasciar cadere i problemi che si presentassero in classe. Sono stati formati 90 insegnanti, con tre corsi residenziali (a Palermo, Albano Laziale e Torino), i ragazzi sono stati coinvolti anche in due iniziative di raccolta firme lanciate da Amnesty International per bambini che avevano subito violazioni di diritti umani e in un contest di disegni per un mondo senza odio, con una delegazione di 10 ragazzi che ha consegnato migliaia di disegni al MIUR.
Crediamo molto nella necessitò del protagonismo giovanile e in attività di educazione alla cittadinanza e ai diritti umani volte a far sì che le persone diventino attive sul loro territorio. Perché diritti umani e inclusività sono cose che si praticano, non che si studiano.
Emanuele Russo, CIFA
«Noi come CIFA crediamo molto nella necessitò del protagonismo giovanile e in attività di educazione alla cittadinanza e ai diritti umani volte a far sì che le persone diventino attive sul loro territorio, poiché diritti umani e inclusività sono cose che si praticano, non che si studiano. La filosofia di approccio, come CIFA, è quella dei tre cerchi: il primo cerchio è il bambino, beneficiario ultimo, che può imparare e decidere di attivarsi ma che non può fare molto se la comunità educante intorno a lui non è sensibilizzata, perché un bambino parla se ha qualcuno che lo ascolta. Il secondo cerchio è la comunità educante – genitori, insegnanti, associazionismo, abbiamo fatto alcuni laboratori con i genitori, qualche volta venuti bene qualche volta no. Il terzo cerchio è la comunità pubblica, se la comunità educante non sta in un contesto in cui la componente politica è sensibile, poco si può fare. Il progetto deve raggiungere tutti e tre i cerchi, altrimenti resta un po’ monco. Il lavoro al terzo livello lo abbiamo fatto su pochi Comuni (Palermo, Milano, Matelica e Pomezia, Albano laziale) servirebbero fondi diversi e tempi più ampi, di almeno due o tre anni».
Dall’11 al 13 novembre, sei classi che si sono particolarmente distinte, andranno a Torino per una tre giorni di incontro e chiusura del progetto: il 12 novembre lasceranno i loro messaggi e disegni su un grande tappeto rosso che verrà consegnato al Comune di Torino.
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