Sostenibilità
Come trasformare tante buone pratiche in un sistema-Paese
Mentre il Governo si scontra sul tema inceneritori, i numeri e le esperienze dicono che il tasso di economia circolare italiano è in cima alle classifiche mondiali. Un vantaggio competitivo che non sappiamo ancora sfruttare al meglio e non compare nel dibattito pubblico
di Redazione
Non è più una questione di forma (circolare o lineare), ma di tempo. Il fatto è che ormai è riconosciuto che non esiste un’opzione alternativa alla circular economy. Come ricorda nel rapporto al Club di Roma per il suo 50esimo anniversario “Come on-come fermare la distruzione del pianeta”, che sarà presentato il 17 e 18 ottobre, Jørgen Randers, uno degli autori de “I limiti” pubblicato nel 2012, «la questione fondamentale è la velocità con cui si realizzerà la transizione verso la sostenibilità. La rivoluzione è già iniziata, questo è certo. Il nuovo paradigma è emerso quarant’anni fa, o forse addirittura cinquanta (con Rachel Carson nel 1962). Da allora si è diffuso, ma è ancora lontano dall’essere dominante». Quando sarà completata? «Sono sicuro che entro il 2100 avremo un mondo molto più sostenibile di quello attuale, dato che, nelle parole di Alan Knight, un esperto del settore, “l’insostenibilità è insostenibile”. Gli attuali sistemi insostenibili non possono per definizione essere portati avanti indefinitamente; dovranno essere sostituiti da sistemi e comportamenti che possano essere mantenuti a lungo termine».
Il rapporto al Club di Roma cita esplicitamente un caso di studio svedese del 2015 che dimostra che il passaggio a un’economia circolare può contribuire in modo significativo a stimolare la competitività economica, ad aumentare i posti di lavoro, riducendo le emissioni di CO2. I rapporti successivi, relativi ad altri sette Paesi europei (Finlandia, Francia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Spagna e Repubblica Ceca) illustrano tre strategie alla base dell’economia circolare: aumentare le quote di energie rinnovabili, migliorare l’efficienza energetica e quella dei materiali. Queste analisi utilizzano un modello di simulazione tradizionale input /output, e concludono che entro il 2030 le emissioni di anidride carbonica potrebbero essere ridotte del 60-70% in tutti gli Stati presi in considerazione se venissero adottate misure politiche chiave. L’effetto sull’occupazione varia da Paese a Paese, ma l’aumento della forza lavoro è nell’ordine dell’13%.
Il Belpaese circolare
E l’Italia? I numeri dicono che nella corsa alla sostenibilità siamo in pole position. Secondo Eurostat il nostro Paese, con 256,3 tonnellate per milione di euro prodotto, è il più efficiente tra i grandi Paesi europei nel consumo di materia dopo la Gran Bretagna (che impiega 223,4 tonnellate di materia per milione di euro e che ha però un’economia più legata alla finanza). L’Italia ha migliorato la sua performance rispetto al 2008 dimezzando il consumo di materia, facendo molto meglio rispetto per esempio alla Germania che, oggi, impiega 423,6 tonnellate di materia per milione di euro.
Siamo poi secondi per riciclo industriale con 48,5 milioni di tonnellate di rifiuti non pericolosi avviati a recupero (dopo la Germania con 59,2 milioni di tonnellate ma prima di Francia, 29,9 t; Regno Unito, 29,9 t. e Spagna, 27 t). Un recupero che fa risparmiare energia primaria per oltre 17 mln di tonnellate equivalenti di petrolio all’anno, ed emissioni per circa 60 mln di tonnellate di CO2 (elaborazione Istituto di ricerche Ambiente Italia).
Duccio Bianchi che ha curato proprio per Edizioni Ambiente (un punto di riferimento imprescindibile per chi si occupa di questi temi) il volume “Economia circolare in Italia” propone altri dati da prendere in considerazione. Per ogni chilogrammo di risorsa consumata, l’Italia genera — a parità di potere d’acquisto (Pps) — 4 euro di Pil, contro una me- dia europea di 2,24 e valori tra 2,3 e 3,6 in tutte le altre grandi economie europee (valori peggiori caratterizzano le economie dei Paesi dell’Europa orientale, anche per la maggiore rilevanza di alcune industrie). Pur essendo un Paese con livelli di efficienza già superiori alla media europea nel 2000, l’Italia è anche il Paese europeo che ha conosciuto tra il 2000 e il 2016 il miglioramento dell’efficienza d’uso delle risorse più consistente (+281%, sempre in Pps). Come per tutti gli indicatori vi sono ovviamente molte variabili che possono rendere “apparente” un miglioramento di produttività. Per l’Italia però il miglioramento non appare principalmente connesso a fenomeni di deindustrializzazione e delocalizzazione. Risulta invece dovuto alla forte riduzione del consumo di minerali non metallici (effetto in primo luogo della riduzione della produzione edilizia), dei metalli (effetto sia del maggiore riciclo sia della contrazione della produzione di acciaio) e dei combustibili (effetto della crescita delle rinnovabili). Non dimentichiamo poi che il nostro Paese, essendo povero di materie prime è storica- mente orientato al riuso. Bianchi ricorda come le prime pratiche di economia circolare si possono far risalire «all’industria tessile del 1300: noi, a differenza della Gran Bretagna avevamo poche pecore, e così non c’era altra via che “rigenerare” i vecchi capi di abbigliamento».
Non bastano i titoli dei giornali
Basta fare un giro su internet o passare in rassegna i principali quotidiani per toccare con mano il tasso di popolarità della circular economy. Una delle firme più conosciute del giornalismo ambientale, Antonio Cianciullo un paio di anni fa ha dato conto della ricorrenza del termine sulle testate italiane (Che cos’è l’Economia circolare, Edizioni Ambiente). E in effetti abbiamo raggiunto vette mai toccate prima. «L’economia circolare» ragiona Sergio Andreis, direttore esecutivo del Kyoto Club, «sta certamente vivendo un momento di grande esposizione anche perché offre soluzioni win-win: vincono le aziende, vincono i consumatori, vince l’ambiente». Non solo: «Sulla scia del pacchetto europeo sulla circular economy approvato lo scorso aprile Bruxelles ha dato il semaforo verde alla Strategia Ue sulla plastica nell’economia circolare». Sulla circolarità l’Europa ha deciso di impegnare 1.150 milioni di euro di fondi a gestione Ue a cui si aggiungono 5 miliardi di fondi strutturali. Con l’obiettivo di creare 580mila nuovi posti di lavoro (867mila considerato il riuso) con un risparmio annuo per le imprese europee di 72 miliardi. «La circular economy l’abbiamo inventata noi»: Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia e segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, nonché membro del comitato scientifico del rapporto al Club di Roma, non spinge a dirlo, «ma certo è che quando negli anni 70 ci battevamo per un’economia che si piegasse alle regole della natura e non viceversa, l’avevamo vista giusta. Ricordo che nel 1971 “The Closing circle” di Barry Commnoner, allora fu tacciato di utopismo: oggi invece siamo qui a parlare di chimica verde ed economia del riciclo».
Questo però non toglie che oggi siamo di fronte a un nuovo inizio. «Il fatto che non ci sia un piano B al successo dell’economia circolare è un dato di fatto», dice Bologna, «ora però abbiamo di fronte due sfide: la prima è quella di immaginare strumenti innovativi per sostenere questo movimento in termini di advocacy e diffusione di conoscenza e dati, la seconda è quella di contrastare le fake news».
«Il pericolo di brandwashing così come quello del greenwashing è sempre presente quando si sperimentano nuove tecnologie, nuovi prodotti e nuovi modi di produzione: un rischio evitabile se si mettono in campo meccanismi seri di monitoraggio e controllo, con le conseguenti misure sanzionatorie e la certezza delle pene», gli fa eco Andreis.
Il ruolo delle imprese
Ancora Andreis: «L’economia circolare ha finora riguardato essenzialmente il settore dei rifiuti, serve, se vogliamo vincere le sfide multiple che i cambiamenti climatici ci pongono rimuovendone le cause — le fonti fossili di energia — decarbonizzare l’intero sistema economico. Un cambiamento epocale per il mercato energetico, l’industria, l’edilizia, la mobilità, l’agricoltura e i servizi e con enormi potenzialità positive». Insomma quello che serve è un cambio di paradigma vero. Che coinvolga in prima battuta le imprese..
Alessandro Perego, direttore del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano si è occupato in particolare dell’analisi della filiera del food: «Le imprese della filiera agro-alimentare — agricoltori, allevatori, cooperative, aziende di trasformazione, distribuzione moderna, ristoratori, operatori logistici — giocano tutti un ruolo chiave nel processo di recupero delle eccedenze. Intanto perché le eccedenze si generano in tutti questi stadi della filiera, in percentuali che appaiono piccole in ciascuno stadio — al più qualche punto percentuale — ma che sommate portano a valori importanti (ad esempio, in Italia, 16% del totale del consumo alimentare). Inoltre, il risultato in termini di tasso di recupero delle eccedenze dipende per larga parte dal loro comportamento. Processi virtuosi di gestione delle eccedenze — strutturati, misurati, anticipatori, con chiare responsabilità — possono dar luogo a percentuali di recupero anche vicine al 100%. Il ruolo delle famiglie è invece chiave da due punti di vista: consumare senza sprechi (le eccedenze domestiche sono difficilmente riusabili fuori dalle mura domestiche) e premiare nelle loro scelte le aziende della filiera che di- mostrano di essere attente al recupero delle eccedenze».
Nel report Circular by design, l’Agenzia europea per l’ambiente ha spiegato come la transizione verso un’economia circolare richieda cambiamenti fondamentali nei sistemi di produzione e di consumo, andando ben al di là dell’efficienza delle risorse e riciclaggio dei rifiuti. Nel paradigma di un’economia circolare è cruciale preservare il valore dei prodotti il più a lungo possibile e i prodotti stessi sono posti al centro del processo di transizione. Ad oggi, però, questa transizione si è concentrata più sui materiali che sui processi. Fatto non casuale, poiché l’economia circolare nasce dal tentativo di dare soluzione al problema dei rifiuti e gli attuali strumenti politici e commerciali si concentrano su rifiuti o materiali. Ma il design inteso come progettazione di scenario e come rovesciamento di processi è la sfida che si apre: progettare i prodotti in modo più intelligente non solo allungherà la vita di quei prodotti, ma cambierà il ruolo di tali prodotti all’interno del sistema. Al contempo, anche all’interno di contesti di economia lineare, il “ruolo” dei prodotti sta diventando sempre più quello di un ibrido prodotti-servizi.
Cosa fare subito
La differenza la fanno le buone pratiche e i processi di filiera. Fra le prime va senz’altro annoverata l’esperienza dei consorzi per il riciclo varato nel 1997 col cosiddetto decreto Ronchi (vedi capitolo tre). Oggi l’ex ministro dell’Ambiente dei governi Prodi e D’Alema presiede la Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile che lo scorso maggio ha creato l’osservatorio della circolarità in Italia con un gruppo di 13 aziende e associazioni di impresa che vanno dai consorzi di riciclo alle industrie di bioplastiche, dalle acque minerali ai pannolini passando per le multiutility. Obiettivo: promuovere lo sviluppo dell’economia circolare in Italia, elaborando proposte di policy e contribuendo alla diffusione di buone pratiche e all’innovazione di sistema. «Per centrare l’obiettivo», interviene Ronchi «occorre in prima battuta difendere e consolidare il sistema dei consorzi, dopo di che vedo tre nodi da sciogliere». Quali? «Il ciclo dei rifiuti in alcune aree del Sud è ancora preoccupante. Dopo di che c’è la questione della dotazione impiantistica. Gli impianti di biogas, biometano e compost di qualità sono ancora insufficienti. Poi c’è il nodo delle plastiche, in particolare quelle miste ancora troppo difficili da riciclare. Infine occorre mettere a fuoco proprio la necessità di un nuovo design industriale che determini non solo l’allungamento della vita dei prodotti e degli imballaggi, ma anche le stesse performance di riciclo». In altre parole un prodotto deve essere progettato sin dall’inizio per avere una seconda vita.
Sull’ecodesign esistono già alcune esperienze degne di nota. Fra queste si conta quella di una bella e storica impresa artigiana (riconosciuta fra l’altro come b-corp) come Palm (fondata negli anni 60 da Guido Barzoni che ha basato la sua strategia competitiva nel mercato dei pallet e degli imballaggi in legno sulla differenziazione puntando su un approccio innovativo sia nella fase di progettazione sia in quella di realizzazione. Tale approccio può essere sintetizzato con i concetti di eco-design ed eco-progettazione, finalizzati ad ottenere un risparmio economico oltre che alla tutela ambientale. In altri termini, si tratta di progettare per ottimizzare peso e volume dell’imballaggio a parità di prestazione, nell’ottica di impiegare meno materia prima e, di conseguenza, diminuire la tara trasportata. Non è una sorpresa che Palm sia stata inserita da Symbola, fra le “100 italian circular economy stories” raccolte da Symbola in collaborazione con Enel e stata fra gli espositori di Ecomondo 2018, la fiera dello sviluppo sostenibile e della circular economy.
Per il presidente della Fondazione Symbola Ermete Realacci, «le cento eccellenze del rapporto descrivono un Paese che, nonostante i tanti problemi e ritardi, ha esperienze avanzate su temi cruciali come la sostenibilità ambientale, la gestione della scarsità delle risorse e il contrasto ai cambiamenti climatici. Il recupero dei materiali ci fa risparmiare energia primaria per oltre 17 mln di tonnellate equivalenti di petrolio all’anno, ed emissioni per circa 60 mln di tonnellate di CO2. E questo contribuisce a rendere più efficiente e competitiva la nostra economia. Queste cento storie ci raccontano di un’Italia che fa l’Italia e innova senza perdere la propria anima; ci parlano di un modello di economia e società più sostenibile e competitivo, più equo, che potrebbe rappresentare la risposta italiana alle questioni scottanti che il presente e il futuro pongono al Pianeta».
Manca il piano del Governo
Questo però non cancella alcune storture di un’economia che non riesce (ancora) a tradurre questa leadership in sistema-Paese capace di fare da volano nella competizione sul mercato globale. «A livello nazionale siamo ancora in attesa di un Piano d’azione nazionale per l’economia circolare e il ministero dell’Ambiente ha tenuto aperta fino a inizio ottobre una nuova consultazione pubblica su Economia circolare ed uso efficiente delle risorse — Indicatori per la misurazione dell’economia circola- re», nota Andreis. Realacci dal canto suo ricorda il caso Contarina. Presso il polo di trattamento dei rifiuti di Spresiano in provincia di Treviso è stato installato un impianto sperimentale per il riciclo dei prodotti assorbenti per la persona (pannolini, assorbenti, pannoloni), inaugurato nel marzo 2015 e realizzato nell’ambito del progetto Recall, co-finanziato dall’Unione Europea, in collaborazione con Fater spa (azienda leader nella produzione di prodotti assorbenti per la persona), il Comune di Ponte nelle Alpi (primo in Italia ad aderire all’iniziativa) e l’Istituto di Ricerca Ambiente Italia. Il sistema, basato su una tecnologia innovativa sviluppata e brevettata da Fater, ricicla i prodotti assorbenti per la persona (PAP) usati di tutte le marche, traendone plastica e cellulosa sterilizzate da riutilizzare co- me materie prime seconde. Siamo al cospetto di un’innovazione tecnologica e di sistema “made in Italy”, riconosciuta dalla Commissione Europea come Eco-Innovation nel 2011 che rende riciclabile con provati vantaggi ambientali una categoria di prodotti tradizionalmente considerati irriciclabili.
«Si tratta», denuncia Realacci, «di uno stabilimento all’avanguardia, che potrebbe smaltire sino a 10mila tonnellate l’anno di pannolini usati, ricavando da una tonnellata di prodotti assorbenti, 300 chili di materia cui dare una seconda vita (tra cellulosa, plastiche e polimero) e risparmiando di circa 400 chili di emissioni di Co2 ogni mille kg trattati. A tutt’oggi però manca l’autorizzazione necessaria in quanto il materiale prodotto dal recupero viene ancora classificato come “rifiuto” e quindi non commercializzabile».
Economia circolare&sociale
Il tema delle procedure e delle regole è senz’altro centrale. E su questo chiodo batte anche Eleonora Rizzuto, direttore Sviluppo Sostenibile di Bulgari e promotrice di Aisec (Associazione Italiana per lo Sviluppo dell’Economia Circolare), un’associazione non profit costituita nel 2014 che oggi riunisce 45 soci fra cui marchi come Autogrill, Intesa Sanpaolo e Ferragamo. «Il nostro non è tanto un approccio di advocacy, ci occupiamo prevalentemente di accompagnare le imprese e le amministrazioni pubbliche nei processi di adesione all’economia circolare: capita spesso che le attività di controllo e verifica da parte della pubblica autorità si mettano di traverso non per “cattiveria”, ma per ottempera- re alle norme di antiriciclaggio e contraffazione che per come sono strutturate oggi non contemplano il riuso o il riciclo».
Aisec poi ha un approccio originale. «Leghiamo l’intervento circolare a quello sociale. Andiamo ad interagire coi territori in un’ottica di rigenerazione urbana e riqualificazione sociale con una particolare attenzione alla disoccupazione e alla disabilità. L’ambiente è solo una faccia della medaglia l’altra è il recupero sociale». Un esempio concreto? «A Lodi siamo passati dal 20 al 45% del reimpiego di prodotti di cosmetica e profumeria, grazie al lavoro di disassemblaggio (pellicola, cartone, plastica…) realizzato grazie al supporto della cooperazione sociale».
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