Famiglia
come stanno bene i figli di tutti i colori
Inchiesta tra le famiglie con bambini di provenienze diverse
Cosa succede quando in famiglia entra un secondo figlio adottivo di pelle e origine diversa? A sorpresa le esperienze insegnano che le cose sono più semplici e naturali. A dispetto di tutti gli stereotipi
L’italiano medio, sbigottito, di solito chiede: «Sono fratelli?». Al supermercato, per strada, in spiaggia: nessuno resiste alla curiosità di fronte a una famiglia adottiva multietnica. Dalla Bolivia passando per l’Etiopia fino alla Cina: i percorsi dell’adozione portano in tutto il mondo e portano il mondo intorno a uno stesso tavolo da pranzo. «Sono la conferma che la vita non è prevedibile né standardizzata», dice Cristina Nespoli, presidente di Enzo B. L’ente autorizzato, che è “specializzato” su Africa e Vietnam, si occupa molto spesso di seconde adozioni. «Perché da questi continenti capita di adottare bambini sotto i 5 anni, che dunque rispettano la regola della primogenitura», spiega la Nespoli.
Contrariamente a quanto succede per un affido, infatti, nell’adozione è strettamente necessario che il secondo figlio sia più piccolo del primo. Ciò è causa, in certi casi, dell’impossibilità di adottare due volte nello stesso Paese. «Se una coppia di 45 anni adotta il suo primo bambino di tre anni in Nepal», spiega Monica Colombo, responsabile del settore adozioni internazionali di AiBi, «sarà praticamente impossibile che possa, due o tre anni più tardi, adottare un bambino più piccolo».
Così, il cambiamento di Paese diventa inevitabile. «Ma è vissuto in modo del tutto sereno», prosegue la Colombo, ammettendo che in ogni caso la maggior parte delle coppie chiede, in prima battuta, di tornare nello stesso Paese. «I motivi sono naturali: con la prima adozione lo hanno conosciuto e ci hanno vissuto, hanno sperimentato l’iter, masticano un po’ la lingua, sono in familiarità con i nostri referenti». Poi c’è il fattore primogenito: «I bambini più grandicelli esprimono spesso il desiderio di tornare nello stesso posto da dove provengono, continua. Detto questo, «l’andare in un altro Paese, anche diverso dal loro, a prendere un fratellino o una sorellina rappresenta una riconferma della loro storia, dell’amore con cui loro stessi sono diventati figli».
Non ci sono fondamenti psicologici che vincolino la scelta della seconda adozione alla stessa nazione da cui proviene il primo figlio. Eppure, i decreti del Tribunale e più spesso le relazioni psicologiche dei servizi consigliano di preferenza «lo stesso Paese o la stessa area geografica». Un vincolo curioso, se solo si pensa alle motivazioni della seconda adozione: secondo i dati della Cai del 2009, mentre per il primo figlio nove coppie su 10 sono motivate dal bisogno di superare un’infertilità biologica, per il secondo figlio questo fattore diventa del tutto residuale. Segno, si legge nella relazione Cai, che «l’attenzione si è spostata sul bambino, sui suoi bisogni e sul desiderio di dargli un fratello o una sorella. Infatti, risulta che il 38,3% delle coppie esprime il desiderio di “completare” la famiglia». Nonostante questa apertura, «riscontriamo grandi problemi con i servizi e i Tribunali di alcune zone d’Italia», ammette Cristina Nespoli. «Vincolano le coppie e gli enti perché siano necessariamente dello stesso sesso o di sesso diverso; oppure impongono che siano della stessa etnia». Schemi, stereotipi «a cui la realtà per fortuna sfugge e si fa più creativa», conclude.
Ma come “tengono” le adozioni multietniche? «Mai riscontrato problemi», commenta Monica Colombo. «Ci sono le solite dinamiche tra fratelli, che litigano, giocano, si amano». Anche se l’italiano medio resta interdetto. «È vero, ma quello dipende dal nostro non saper reagire a un mondo che cambia, che è già diverso e multietnico. Per questo, ben venga la curiosità: abbatte i pregiudizi e ci restituisce una bellissima normalità».
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