Politica

Come si trasformabla doppia animabdella cooperazione sociale

Toscana Tra le righe del quarto rapporto Irpet-Unioncamere

di Redazione

La matrice cattolica e quella operaia. Due modelli che oggi si distinguono più per settori di attività e forme organizzative che per le ideologie
di riferimento. E che tendono sempre più a contaminarsi S i può parlare ancora di cooperazione sociale di matrice cattolica? E di cooperazione operaia? Vent’anni dopo la fine del sistema delle appartenenze, questa la conclusione a cui giunge il quarto Rapporto sul sistema cooperativo toscano : i due modelli resistono ai mutamenti del quadro politico e sociale ma, questa la novità, assomigliano sempre meno agli schemi di un tempo. La linea di divisione non passa più, infatti, lungo il crinale delle ideologie di riferimento quanto dei diversi settori di attività del privato sociale. Si assiste, soprattutto, alla contaminazione fra i due modelli. Un processo innescato dalla normazione sempre più stringente del settore e dalla crescita della concorrenza da parte di altri soggetti: le imprese profit, in particolare, ma anche le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale e le “badanti”.
Ma quali sono, innanzitutto, le caratteristiche dei due modelli? Le due forme organizzative si differenziano inizialmente per la struttura di impresa e per le modalità delle relazioni tra le imprese aderenti. Quelle di orientamento prevalentemente religioso, spiegano i ricercatori dell’Irpet e di Unioncamere Toscana, si caratterizzano per la prevalenza di organizzazioni di piccole dimensioni legate tra loro attraverso lo strumento del consorzio e per la presenza di forme di volontariato; quelle più laiche per le dimensioni d’impresa maggiori, per la specializzazione in una pluralità di servizi e per la presenza dei soci lavoratori a tempo pieno. Due modelli che tendono a valorizzare, nel primo caso, la democrazia interna, lo scambio mutualistico con i soci, il rapporto con il territorio e il ruolo dell’organizzazione consortile nel compito di mantenere la competitività sul mercato. Nel secondo, invece, la concezione della cooperativa sociale anche come impresa e dunque la capacità di stare sul mercato come condizione indispensabile per la realizzazione delle finalità solidaristiche. Un orientamento, quest’ultimo, che non esclude a priori la crescita dimensionale dell’organizzazione quando è resa necessaria dall’evoluzione del mercato.
Due sistemi, si legge nel rapporto, che si avvicinano ai modelli delle maggiori centrali cooperative: Confcooperative-Federsolidarietà e Legacoopsociali. Modelli culturali e organizzativi che si differenziano anche per i committenti. Confcooperative lavora prevalentemente con gli enti locali, Legacoop più con le aziende sanitarie. Una differenza che gli autori del rapporto spiegano con la maggiore specializzazione delle aderenti a Legacoop in servizi più strutturati (gestione delle residenze assistenziali per gli anziani). Lo studio, inoltre, mette in rilievo i mutamenti nell’organizzazione dei consorzi toscani. La tendenza è verso la creazione di organismi di dimensione sempre maggiore con un’articolazione territoriale di tipo classico ma anche per filiera produttiva. In particolare, Confcooperative sostiene la costituzione di una sorta di “catena gerarchica” tra consorzi di vario livello territoriale (provinciale, regionale, nazionale), mentre Legacoop promuove la formazione di consorzi di “area vasta”, cioè di livello sovraprovinciale. Due modelli differenti che, tuttavia, cominciano a contaminarsi. Confcooperative, ad esempio, ha iniziato a promuovere la crescita dimensionale delle imprese, specie quando la trasformazione appare l’unica condizione di permanenza sul mercato. Legacoop, invece, ha lavorato soprattutto sulla promozione dei consorzi per favorire l’adesione delle cooperative medie e piccole. Un processo, dunque, di omogeneizzazione dei due modelli più che di assimilazione dell’uno da parte dell’altro.


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