Welfare

Come sei vecchia Italia!

Il rapporto del Cnel mette a fuoco un Paese in cui i posti chiave sono occupati quasi esclusivamente da over 50

di Lorenzo Alvaro

Il Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), in collaborazione con Unicredit Group, presentata oggi a Roma, con il titolo «Urg! Urge ricambio enerazionale». L’indagine ha preso in considerazione quattro ambiti: il mercato del lavoro, la politica, l’università, le libere professioni. Inutile sottolineare che il principale responso dell’analisi è che l’Italia è un paese vecchio: si vive più a lungo e si fanno meno figli. L’indagine però scava più a fondo chiarendo che la società italiana invecchia non solo per motivi demografici, ma anche perchè il sistema di potere lascia poco spazio alle nuove generazioni. I meccanismi di formazione e di selezione delle èlite sono infatti caratterizzati da una bassa capacità di ricambio e da una pronunciata longevità.


MERCATO DEL LAVORO – Precariato
Stando ai dati dell’Istat la trasformazione delle collaborazioni in contratti a tempo indeterminato non è affatto la norma: il 73,1 per cento dei giovani che alla fine del 2006 erano assunti con un contratto di collaborazione, a distanza di un anno erano ancora nella stessa posizione. Il passaggio al lavoro dipendente è diventato realtà solo per un giovane collaboratore su cinque (22,6 per cento); peraltro questo passaggio per circa la metà dei neodipendenti ha significato accontentarsi di un contratto a tempo determinato. In pratica, nell’arco di un anno, solo un collaboratore su dieci è entrato a pieno titolo nel mondo del lavoro standard, ottenendo un contratto a tempo indeterminato. Le carriere si allungano e chi ha un percorso lavorativo molto frammentato ogni volta è costretto a ricominciare dalla base della piramide, rimanendo di fatto escluso dalle posizioni di vertice. Ecco emergere un altro tratto del sistema italiano: l’assunzione di posizioni di rilievo dipende dall’esperienza lavorativa, intesa semplicemente in termini di anzianità aziendale, a prescindere dai livelli di produttività e delle competenze di ciascuno.
Non a caso, quindi, secondo la ricerca del Cnel, considerando le posizioni dirigenziali del lavoro dipendente, si nota che in dieci anni il contributo dei giovani all’interno dei ruoli direttivi passa dal 9,7 per cento al 6,9 per cento, tra i quadri invece dall’17,8 per cento del ’97 si scende al 12,3 per cento dello scorso anno. Lo stesso andamento si rileva anche tra i liberi professionisti: in dieci anni diminuiscono anche i giovani imprenditori (dal 22 per cento al 15 per cento) e i giovani impegnati nelle libere professioni passano dal 30 per cento al 22 per cento.

MERCATO DEL LAVORO – Disoccupazione giovanile
Accanto al precariato, si va un fenomeno che getta una luce sinistra sulle possibilità dei giovani di ridurre le distanze con le generazioni successive. Tra il 2006 e il 2007, crescono di circa 200 mila unità i giovani inattivi, cioè ragazzi che non lavorano e non cercano lavoro. All’interno di questo grande gruppo (in totale si tratta di sei milioni di persone), oltre agli studenti e alle casalinghe, sono presenti anche persone che hanno già avuto una qualche esperienza lavorativa. Se si scava tra i giovani inattivi, si trovano 979.217 individui che l’anno prima avevano in qualche modo partecipato al mercato del lavoro (si tratta del 16,2 per cento degli inattivi). Questi giovani hanno avuto un brusco cambiamento di status: nel 2006 erano formalmente inseriti nelle forze di lavoro (come occupati o persone in cerca), mentre nel 2007 hanno deciso di non provare nemmeno a cercare un lavoro. Tra costoro, la transizione più violenta è quella degli oltre 220mila giovani che nel 2006 erano occupati e nel 2007 hanno rinunciato a cercare attivamente un lavoro. Circa 430 mila sono invece i giovani nel 2006 in cerca di prima occupazione, diventati quest’anno inattivi. Infine, ci sono 330mila disoccupati passati nel 2007 condizione di non attività.

POLITICA
Le cose non vanno meglio, secondo il rapporto del Cnel, nel mondo della politica. Dal 1992 ad oggi, infatti, i deputati under35 non hanno mai raggiunto la soglia del 10 per cento degli eletti alla Camera, fatta eccezione per la XII Legislatura (1994-1996 12,4 per cento). Non è un caso che questo picco si sia registrato nel periodo in cui si sono avvertiti i contraccolpi più acuti del terremoto di Tangentopolì, quando i partiti si sono dovuti adeguare alla domanda di cambiamento proveniente dalla società. Il risultato è stato che, nella parte centrale degli anni Novanta, un numero maggiore di trentenni è riuscito a conquistare uno scranno parlamentare. Questa dinamica virtuosa si è però ben presto interrotta. La prima conseguenza di questa «deriva gerontocratica» è un deficit democratico ai danni dei giovani: i 25-35enni sono un segmento assai consistente della popolazione maggiorenne (18,7 per cento), ma il loro peso parlamentare appare quanto mai scarso (5,6 per cento); il che vuol dire che la loro rappresentanza è pari solo ad un terzo dell’incidenza effettiva sugli elettori (0,29 per cento). La marginalità politica dei giovani è dunque evidente.

UNIVERSITA’
Note dolenti anche nelle università. I risultati dimostrano infatti che i cinquantenni/sessantenni escludono sistematicamente i giovani nel mondo accademico e sono restii a farsi da parte. Il rapporto del Cnel lamenta che un sistema di cooptazione poco meritocratico, i concorsi poco trasparenti e il precariato, purtroppo, tendono ad essere la regola nel mondo dell’accademia, sottolineando che l’anomalia del caso italiano non rappresenta certo una novità. Da tempo si denunciano i tratti peculiari dell’università italiana: docenti anziani e nessun ricambio generazionale.
In base agli ultimi dati messi a disposizione dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca l’età media dei docenti universitari è di 51 anni. Tuttavia, il dato non dà a pieno la misura della deriva gerontocratica dell’università italiana. Se, infatti, si considerano solo gli ordinari, i docenti all’apice della carriera, l’età media raggiunge i 59 anni. Nel dettaglio la metà dei
professori di prima fascia ha superato i 60 anni e circa 8 docenti su cento (7,6 per cento) hanno compiuto 70 anni. Non che i professori associati e i ricercatori siano particolarmente giovani (l’età media è, rispettivamente, di 52 anni e di 45 anni). I giovani sono dunque pochissimi: solo il 7,6 per cento (su 61.929 docenti e i ricercatori), se consideriamo solo quanti non hanno più di 35 anni. Di questi, però, la stragrande maggioranza ricopre la qualifica più bassa della gerarchia accademica: i giovani ricercatori sono 4.374 (7,1 per cento), i professori associati 311 (0,5 per cento) e gli ordinari solo 21 (0,03 per cento). Chiaramente questo ritardo si ripercuote su tutte le tappe successive della carriera accademica, comportando un innalzamento dell’età media dei docenti alla nomina, e ciò a tutti i livelli della carriera universitaria (ricercatore, professore associato e ordinario). Non sorprende, dunque, che venga giudicato «giovane» un ricercatore di 40 anni. Così, quello che dovrebbe rappresentare il punto d’inizio della carriera universitaria in Italia è un punto di arrivo.

LIBERI PROFESSIONISTI
Persino dove il libero mercato dovrebbe più garantire le competenze rispetto ad altri fattori il freno posto ai giovani non modera il suo effetto. Secondo il rapporto infatti, non poche difficoltà incontrano anche i giovani italiani che vogliono intraprendere la strada del giornalismo, della medicina o dell’avvocatura. Pur con le dovute differenze, anche questi percorsi sembrano avere dei tratti comuni: in Italia non è vero che il merito premia sempre. Anche le persone più capaci, per riuscire a vivere del proprio lavoro, tra tirocini, concorsi e contratti a brevissima scadenza, devono pazientare fino a quarant’anni circa. Fino ad allora non possono che continuare a sperare nell’aiuto della propria famiglia.

Nel giornalismo i giovani giornalisti sono costretti ad attraversare un vero e proprio limbo esistenziale, fatto di lavoro non riconosciuto e di formazione che in realtà è lavoro. Per i più stage, tirocini gratuiti e condizioni di estremo precariato o  fino a oltre 40 anni. L’età media degli iscritti alle diverse categorie professionali la dice lunga circa la lunghezza dei tempi che si prospettano a quanti decidono di intraprendere la professione del giornalista. Se, infatti, l’età media dei giornalisti professionisti è di 54 anni, i pubblicisti non sono certo molto più giovani (52
anni). Anche l’età media dei praticanti, 36 anni, è decisamente elevata rispetto a quella che dovrebbe essere l’età di chi si affaccia al mondo del lavoro.

Nel campo medico, il rapporto evidenzia che morire quella dei favoritismi e delle raccomandazioni è una pratica dura a morire. In questo settore solo dopo una lunga gavetta e molti anni di lavoro precario, si può sperare di riuscire ad esercitare la professione in modo stabile e continuativo. Una conferma di quanto sia lungo l’iter per diventare medici la dà il dato sull’età dei medici iscritti all’Albo professionale nel 2007: i medici con non più di 35 anni sono poco meno del 12 per cento.  Le cose non vanno meglio se si considera la fascia d’età successiva: anche i 35-39enni non raggiungono il 10 per cento (6,8); per superare tale soglia bisogna arrivare agli iscritti compresi nella fascia d’età 40-44 anni. Di contro, il 56 per cento dei medici iscritti all’Albo ha più di 50 anni e tra questi più dell’11,5 per cento ha più di 65 anni. Tale struttura per età della professione medica è un’evoluzione recente (o meglio un’involuzione): nell’arco di un decennio i medici con meno di 35 anni si sono praticamente dimezzati.

Peculiare è poi la situazione nell’avvocatura: la percentuale di under 35 iscritti all’Albo degli avvocati è tutt’altro che irrilevante, essendo quasi un terzo del totale (27,8 per cento). La maggior parte di essi esercita nelle regioni del Sud (43,5 per cento) dove, probabilmente, le scarse opportunità lavorative incoraggiano i giovani a crearsi delle opportunità, magari intraprendendo la strada della libera professione. Nel mondo dell’avvocatura la questione giovanile non è tanto legata all’accesso alla professione (che comunque potrebbe avere tempi più brevi rispetto a quanto non avvenga oggi), ma piuttosto alle condizioni lavorative in cui versano i giovani professionisti e alle difficoltà che questi incontrano ad affermarsi in un mercato nel quale i grandi studi e i nomi di grido lasciano ben poco spazio alle nuove leve.


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