Cultura
Come rigenerare, tra digitale e algoritmi, il valore della “Destinazione”?
Flaviano Zandonai e Paolo Venturi sono gli autori controcorrente che ci accompagneranno alla scoperta del quarto termine chiave per mettere a fuoco il senso delle vacanze. «È proprio dalla destinazione che dovremmo ricominciare per ritrovare nel nostro frenetico muoversi elementi di significato nuovi che ci indichino la direzione ma anche il senso. Destinazione richiama infatti la dimensione del telos, cioè del fine e del suo realizzarsi perché, appunto, “siamo giunti a destinazione”»
Dove andare? La risposta a una domanda così banale eppure basilare quando si parla di viaggio e di vacanza richiede una crescente dose d’intelligenza che forse abbiamo demandato troppo a quella artificiale. Algoritmi sempre più efficienti che gestiscono buona parte del meccanismo decisionale, puntando soprattutto sulla connettività dei passaggi che ci avvicinano alla meta. Tanto che quest’ultima rischia di diventare un optional come per la startup italo-spagnola Flykube che fino al gate o alla stazione la tiene nascosta, puntando quasi tutto sull’esperienza del viaggio. Eppure forse è proprio dalla destinazione che dovremmo ricominciare per ritrovare nel nostro frenetico muoversi elementi di significato nuovi che ci indichino la direzione ma anche il senso. Destinazione richiama infatti la dimensione del telos, cioè del fine e del suo realizzarsi perché, appunto, “siamo giunti a destinazione”. Rimanda quindi a un’attività di ricerca come ben dimostrano, su tutt’altro fronte eppure con notevoli analogie, i migranti perché da sempre migrazione è un fenomeno a elevata intensità di conoscenza e di tecnologia (basti pensare al ruolo letteralmente vitale della georeferenziazione e dei social network) per far fronte a bisogni (materiali e non), all’incertezza (rispetto all’approdo) e alle difficoltà (durante il percorso).
Come rigenerare quindi il valore della destinazione? Una prima indicazione è di non seguire i classici inviti a scollegarsi dai social network e a rifuggire dalle piattaforme digitali, ma piuttosto ad essere noi gli abilitatori di queste tecnologie e non il contrario. Riprogrammare il navigatore utilizzando mappe alternative, diventare parte di comunità leggere che fanno dei comportamenti più naturali (come la vacanza) un elemento di trasformazione sociale, educare la propria capacità di taggare e recensire, riconoscere il valore del tipico e del locale non come uno scrigno, ma facendosi coinvolgere nella sua riproduzione. In sintesi si tratta di riscoprire la dimensione di luogo contribuendo ad addensare relazioni, sia quelle native sia quelle che vi si situano provenendo da flussi extralocali perché è da questa combinazione che scaturisce il carattere autentico — e quindi vero — dell’esperienza. Un valore che peraltro deve essere il più possibile condiviso perché in presenza di squilibri la destinazione diventa inaccessibile (cioè un bene posizionale) oppure sovrasfruttata, impoverendo così la risorsa ambientale ma anche, e sempre più, asset sociali come la coesione, la sicurezza e la qualità della vita di turisti e residenti.
Una seconda indicazione riguarda i soggetti di Terzo settore, le imprese sociali in particolare, che negli ultimi anni vivono quasi con sgomento il fatto di venire espropriate del proprio valore aggiunto relazionale non da parte del digitale in sé, ma dai modelli economici e imprenditoriali che hanno assunto il controllo di questa trasformazione tecnologica che trova nei viaggi e nelle destinazioni un “core business” rilevante. Come risolvere quindi la sensazione sgradevole di aver svolto il ruolo di incubatore e tester di modelli di servizio che poi sono stati scalati secondo i canoni più classici dell’economia capitalistica? La risposta, possibile, sta nell’infrastrutturare le reti iperlocali che trovano il loro perno (hub) intorno a infrastrutture sociali (materiali e/o intangibili) e che corrispondono, ancora una volta, a una dimensione di luogo. Ad esempio mutualizzando gli host turistici che insistono non semplicemente su confini fisici ma su una rappresentazione condivisa — e aggiornata — di cosa significa “territorio”. Oppure diversificando i punti di contatto dove è possibile fare molteplici esperienze oltre le classiche mete predeterminate dalla presenza di “attrattori turistici”.
Tutto questo poi va messo in piattaforma: una tecnologia dove il digitale allunga la leva dell’abilitazione di attori diversi — non solo “addetti ai lavori” — e aumenta la connettività per sviluppare una massa di relazioni che genera economia e significati. Senza questo intento di aggregazione, anche di natura culturale, il rischio è la polverizzazione prestazionale. Le opzioni strategiche sono, in tal senso, piuttosto chiare e presuppongono l’assunzione di rischio e dunque un atteggiamento imprenditivo. Da una parte la sfida è di annidarsi nell’iper globale delle piattaforme mainstream sfruttandone la connettività senza farsi colonizzare. Dall’altra si tratta di costruire piattaforme “geneticamente diverse”, anche per quanto riguarda la governance, ma a patto di alzare significativamente la scala dell’investimento. Così il dove andare avrà la risposta intelligente che si merita.
Nella foto una vista del Ponte della Cresa sul torrente Verde, Pontremoli
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