Mondo
Come portare l’annuncio della misericordia tra chi soffre?
Don Tullio Proserpio è il cappellano dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano che per missione e vocazione lavora quotidianamente con la sofferenza dell’altro. Tema, quello del rapporto con il dolore altrui, che, di fronte alla tragedia del sisma, diventa centrale. L’intervista
Pian piano l'onda emotiva che accompagna ogni grande tragedia si sta esaurendo. Più ci si allontana dalla frenesia del primo intervento, del salvataggio delle vite e dal recupero dei corpi più l'attenzione scema e si apre il lungo, lunghissimo, periodo di ricostruzione. Più si allontana l'attenzione più chi è stato colpito da queste tragedia rimane solo e si trova a dover fare i conti con una nuova quotidianità. Come dunque si può portare l'annuncio della misericordia a chi soffre, proprio nel momento in cui ce n'è più bisogno?
Lo abbiamo chiesto a Don Tullio Proserpio, cappellano dell'Istituto dei Tumori di Milano che per missione e vocazione lavora quotidianamente con la sofferenza dell’altro.
La sua missione pastorale si svolge all’interno dell’Istituto dei Tumori di Milano. Per lavoro quindi lei vive ogni giorno faccia a faccia con la sofferenza. Cosa insegna questo a un uomo che è anche prete?
La malattia, ma questo vale per la sofferenza in generale, è una situazione concreta che la persona vive. Il rischio che spesso corriamo è che a fronte di un’esperienza – la malattia – rispondiamo con un concetto, spiegando all'altro qual'è e il senso della sua sofferenza, del suo dolore, della sua malattia. Così facendo generiamo spesso solo inutile tensione. Nel mio lavoro ho imparato, a fronte di un’esperienza, di “rispondere” con un’altra esperienza, la relazione. La malattia, il dolore e la sofferenza sono oggettivamente un male che ci appare ingiusto; e ciò che è sommamente ingiusto è la malattia, il dolore e la sofferenza nel e dell’altro (un genitore con un figlio malato di cancro: dice “perché non a me?”). La malattia, il dolore e la sofferenza appartengono all’ordine dell’inevitabile, dell’incostruibile (cercare un senso può portare alla deriva dei “sensi truculenti” di cui parlava Lacan): il tuo costruire può diventare un distruggere. Allora malattia, dolore e sofferenza appartengono al mistero della vita (la parola mistero, viene dal greco “myo”, socchiudere le labbra: è parola inesprimibile). Resta la prossimità (esigente e non accomodante), che si fa speranza: essere ed esserci. Questo ci viene richiesto: non altro, non oltre, non di più, ma non dimeno. Credo che questo valga anche per una tragedia come quella del Centro Italia.
C’è stata una forte polemica su un’iniziativa di preghiera per i morti del terremoto lanciata online dalla scrittrice Costanza Miriano. Che ne pensa?
Una parola oggi molto usata è precisamente quella di ‘Misericordia’. Grazie a Papa Francesco questo termine è oggi molto utilizzato, per lo meno questo è ciò che mi sembra di cogliere, in ogni situazione. Credo significativo riconoscere che il termine ‘Misericordia’, non indica un singolo e unico modo di fare o agire, quanto piuttosto esprime una relazione reciproca che porta a riconoscere il genere di rapporto esistente tra le due parti. per cui scrivere su ‘come portare l’annuncio della misericordia tra chi soffre’, mi sembra tutt’altro che semplice. Credo abbia a che fare con qualcosa che ‘tocca’ nel profondo Dio stesso. Mi sembra importante avere bene chiara, per quanto possibile, la propria identità. Quanto più è precisa la propria identità e ciò che desidero per l’altro che mi sta davanti, tanto più consento all’altro di compiere il proprio cammino che non necessariamente o non sempre, coinciderà con quanto io desidero. Deve essere garantito in ogni caso e sempre la libertà dell’altro di seguire il proprio percorso che potrà essere più o meno condiviso.
Ricordo che lei raccontava come di fronte alla morte di una persona cara vale molto di più un abbraccio che dei discorsi. Cosa intendeva dire?
Il letto della persona malata non è il momento di fare catechesi, ribadire i contenuti della fede cristiana, non serve perché in quel momento le priorità sono altre. Non serve molto ribadire, ad esempio “Sai che Dio che ti vuole bene e che è sempre vicino a te”. Perché mi sembra sia proprio questa la questione: non serve in quei momenti “sapere” che Dio mi ama! Il problema è che in quelle particolari situazioni, non si riesce a “fare esperienza” di questa vicinanza di Dio, di questo Suo voler bene! Proprio il vissuto di Gesù mi sembra dica esattamente questo e, insieme, credo di grande consolazione per tutti! Gesù, il Dio cristiano, non voleva soffrire, non voleva andare in croce, non voleva morire. Gesù ha paura e proprio sulla croce si sente abbandonato da Dio. Ritengo che interpreti assai bene la reale situazione di quanti, uomini e donne, vivono il dramma angoscioso dell’approssimarsi della morte; espressione, quella di Gesù, che ben comprende l’abisso di solitudine e paura che spesso attanaglia chi è in agonia. Chi accompagna cristianamente entra nella relazione con la propria certezza che Dio è buono e provvidenza ma lascia il tempo all’altro di arrivare a modo suo a questa certezza. L’attesa che qualcosa si muova non esclude (anzi!) la possibilità che entrambi si trovino costretti a tacere. Il silenzio è inevitabile là dove la relazione deve trovare nuove modalità. Questo il motivo per cui la relazione è fatta anche di silenzi, di lacrime, di paure condivise, ecc., Silenzi non imbarazzati semplicemente realistici perché a fronte delle molteplici domande e interrogativi che sgorgano dal cuore delle persone traversate dalla malattia, diventa davvero arduo pretendere di poter offrire risposte convincenti, che forse neppure esistono.
Papa Francesco sta incentrando fortemente il suo messaggio sulla misericordia e il perdono. C’è chi sostiene però che lo faccia per invitare una sorta di popolo dei giusti ad avere pietà di un popolo di persi. È così, Il Papa non parla ai cattolici ma a tutti gli altri?
In forza di questa “Misericordia” di cui parla il Papa, Dio entra in relazione “personale” con l’uomo attraverso il Figlio Gesù e propone ad ogni uomo e donna di tutti i tempi, razza, cultura, ceto sociale, di vivere questa personalissima relazione. Proprio in quanto relazione, se vissuta in modo autentico da chi si fa vicino all’altro con il desiderio di aiutare, “tocca” sempre anche l’accompagnatore, non lascia indifferenti. Infatti “so” come entro nella relazione ma “non so” mai come ne uscirò. Questo uno dei motivi per cui, forse, la relazione talvolta può fare paura, si preferisce rimanere a distanza e non lasciarsi ‘toccare’ dall’altro, lasciando l’altro nella sua solitudine, paura, angoscia.
Dunque la misericordia essendo una relazione non è considerabile uno sforzo unilaterale…
Oggi, forse sempre, credo centrale il modo concreto attraverso il quale ciascuno di noi esprime il proprio modo di vedere, leggere e interpretare la realtà. Ritengo che Gesù lo testimoni con una modalità convicente. Si potrebbe però qui aprire l’interessante discorso del buon utilizzo dei sensi, che lasciamo per un altro momento.
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