Elezioni Usa 2024

Come (non) si fa un passaggio generazionale: la lezione di Joe Biden

Joe Biden si è ritirato dalla corsa alla Casa Bianca: una decisione segnata dal tema dell'età e dell'esigenza di un cambio generazionale. Con Federico Mento, direttore di Ashoka Italia, rileggiamo il "passo indietro" di Biden, che riguarda il Terzo settore italiano più di quel che pensiamo: «I grandi donatori sempre più spesso chiedono all’organizzazione qual è il piano di successione. E cambiare il presidente non basta»

di Sara De Carli

madre con figlia in braccio ringrazia Joe Biden per la scelta di ritirarsi dalla competizione per la casa bianca

Joe Biden, il presidente degli Stati Uniti, alla fine ha ritirato la sua candidatura per la corsa alla Casa Bianca. Una decisione presa «nel migliore interesse del mio partito e del paese», ha scritto. Un passo indietro che ha trovato oggi unanimi apprezzamenti, con tutto un fiorire di riflessioni sul tema dell’eredità. Il tema dell’età e del passaggio generazionale è stato infatti prepotentemente messo al centro quantomeno della narrazione entro cui questa decisione nelle ultime settimane è maturata, in particolare dopo quel confronto elettorale tra Biden e Trump dello scorso 27 giugno, in cui l’attuale presidente è apparso – hanno scritto in tanti – come vecchio e confuso. Cosa ci insegna (o non ci insegna) la vicenda di Biden sulle leadership alle prese con la transizione generazionale? Ne abbiamo parlato con Federico Mento, direttore di Ashoka Italia e segretario generale presso Social Value Italia.

Una scelta, questo passo indietro di Biden, che davvero si può leggere come legata al tema del passaggio generazionale?

Dobbiamo fare un “caveat” iniziale, quello per cui in politica tutto è difficile da decifrare, soprattutto in un momento in cui i social determinano le modalità delle scelte della politica. È difficile poter apprezzare se quella di Biden sia una scelta sincera o se sia una scelta semplicemente tattica ma non strategica. Diciamo che stando alla tempistica, se Biden avesse voluto davvero costruire un “succession plan” di certo lo avrebbe fatto da tempo, non oggi: da quel punto di vista adesso siamo fuori tempo massimo, è una scelta tardiva.

Se Biden avesse voluto davvero costruire un “succession plan” di certo lo avrebbe fatto da tempo, non oggi: da quel punto di vista adesso siamo fuori tempo massimo

Quindi la decisione appare più come l’esito delle pressioni del partito dopo aver verificato che i sondaggi davano Biden molto indietro e in cui la temporanea malattia gli ha dato l’occasione di fare un passo indietro?

Se fosse stata sinceramente dettata da ragioni strategiche, questa scelta Biden l’avrebbe fatto prima. Del resto quando si presentò alle scorse elezioni e le vinse, fece intendere chiaramente che la sua candidatura sarebbe stata “di servizio” per la costruzione di una nuova leadership e che non ce ne sarebbe stata una seconda. Detto ciò, a Biden va riconosciuto il merito di aver fatto il passo indietro, cosa che oggettivamente è poco usuale. L’unico precedente è quello di Johnson nel 1968, quando dopo aver perso in uno degli Stati chiave scioccò l’America annunciando a sorpresa che non si sarebbe ricandidato alla Casa Bianca. L’altro gesto che dice la grandezza comunque di Biden come uomo politico è l’endorsment esplicito che ha fatto per Kamala Harris, si è esposto molto e anche questo non era scontato. Non so cosa accadrà ora, i giovani avevano già partecipato in maniera convinta alla campagna di Biden: bisognerà vedere anche a quale pezzo di America si sceglierà di parlare con la scelta del vice.

La vicenda di Biden, che riflessione ci fa fare sulla capacità della politica di costruire nuove leadership?

La politica ha tendenza a divorare i propri figli, questa purtroppo è una dinamica molto frequente, soprattutto in un sistema presidenziale spinto sull’individuo, in cui tu sei al centro della scena e tutto ciò che si muove attorno a te potrebbe essere una minaccia per la sua leadership. I democratici hanno vissuto lunghi cicli di opposizione interna, ma forse l’unico vero passaggio generazionale è stato quello tra Clinton e Al Gore, non felice come esito. Nel mondo dei repubblicani il cursus honorum è completamente saltato, sulla spinta della logica dei social network, che improvvisamente si accendono su figure stra-ordinarie, anche esterne alla vita di partito: conta di più il fatto che riescano a catalizzare l’attenzione dell’elettorato. Conta quanto tu sei o non sei in grado di “bucare”. Questo è evidente con Trump ma anche con Obama, per la freschezza che portava. Il tema è quello della costruzione del consenso, che ormai è dentro la dinamica politica, in America come qua in Europa: quando ci si focalizza sul leader e sulla sua capacità di costruire consenso, è difficile passare il testimone.

Quando ci si focalizza sul leader e sulla sua capacità di costruire consenso, “bucando” sui social network, è difficile passare il testimone

Di fatto evidentemente non c’è stata alcuna strategia nell’accompagnare un cambio generazionale.

No, ovvio. E su questa responsabilità possiamo dire che è tutto un gruppo dirigente che ha mancato l’appuntamento con la storia. Perché la transizione generazionale non è questione di un singolo: per essere vera, per funzionare, deve coinvolgere tutto un partito o più in generale tutta una organizzazione. Questo è un errore che facciamo troppo spesso anche nelle organizzazioni della società civile: pensiamo che basti cambiare il presidente e la transizione generazionale è fatta. Mentre la transizione per funzionare deve nascere dall’interno, deve coinvolgere principi e regole. Solo se si è allineati su quel piano, la transizione funziona. Ormai questa è una sfida ineludibile: ormai vediamo che i grandi donatori chiedono all’organizzazione qual è il suo piano di successione. È una domanda legittima alla quale abbiamo il dovere di rispondere. Accadrà sempre di più così.

L’errore che facciamo anche nelle organizzazioni della società civile è pensare che basti cambiare il presidente per fare la transizione generazionale. Non è così

Che cosa si deve fare di più per curare la transizione generazionale?

La prima cosa è creare occasioni di incontro e di dialogo tra generazioni dentro le organizzazioni: difficilmente le generazioni possono dialogare se non c’è uno spazio di confronto e senza confronto e dialogo il rischio è quello di restare imprigionati in narrazioni contrapposte. La seconda è lavorare per coltivare nuovi talenti, domandarci tutti, in prima persona, come io mi prendo cura dei giovani che dimostrano potenzialità e come faccio in modo che crescano e non vadano altrove. Su questo per esempio noi come Terzo settore non siamo per nulla attrezzati, pensiamo che la nostra mission basti per attrarre i giovani, ma non è così. La terza cosa è non commettere l’errore di “rottamare” la leadership precedente, ma capire come un leader possa ancora essere di servizio alla causa, mettendo a disposizione tutto quello che ha imparato. Io non credo affatto che la rottamazione sia la strada giusta: serve un affiancamento tra nuova e vecchia leadership, un periodo di trasferimento dalle generazioni più anziane a quelle più giovani, a patto però che sia senza paternalismo. Un mentoring e un affiancamento che devono lasciare autonomia decisionale vera.

Non so se l’assenza di riconoscimento e la percezione di non avere un futuro avrà come esito il conflitto o la scelta di andare via. In entrambi i casi non possiamo permettercelo

C’è chi, come Scott Galloway (vedi qui il suo Ted di aprile 2024, How the US is destroying young people’s future, con oltre 6 mln di visualizzazioni), denuncia con forza l’iniquità di scelte politiche a tutto svantaggio dei più giovani: una cosa inaccettabile, anche a costo di spingere sulla contrapposizione tra generazioni. Lei vede crescere atteggiamenti di contrasto o conflitto generazionale?

Se io fossi più giovane oggi avrei una percezione certamente disturbante rispetto al paternalismo di una generazione che ha avuto moltissime opportunità, che le generazioni di oggi non hanno. Non è una questione di merito o demerito, ma certamente certe condizioni di contesto hanno favorito alcune generazioni. Oggi è tutto diverso, in termini di reddito di welfare: c’è un fenomeno distorsivo anche sui salari, che rischia di esplodere. Poi non so se l’assenza di riconoscimento e la percezione di non avere un futuro avrà come esito il conflitto o la scelta di andare via. In entrambi i casi è una situazione che non possiamo permetterci. Le aziende stesse devono capire che tutto questo avrà un impatto anche sulla creazione di valore e fra 5 o 6 anni avremo un problema serio di competitività.

In foto, davanti alla White House in Washington una donna con la figlia di 2 anni in braccio ringrazia Joe Biden per il suo passo indietro, credits AP Photo/Susan Walsh/Associated Press/LaPresse 

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