Welfare

Com’è dura compiere 18 anni quando “hai solo te stesso”

Ogni anno circa 2.400 ragazzi che vivono fuori dalle loro famiglie di origine si ritrovano ufficialmente adulti allo scattare dei 18 anni e accompagnati (o spinti) fuori dai percorsi di accoglienza. Domani a Roma si riuniscono per la seconda Conferenza Nazionale dei Care Leavers. La storia di Adina e della sua straordinaria voglia di farcela, insieme agli altri

di Sara De Carli

«Mi chiamo Adina, sono nata a Bologna nel 1995, mio padre è bosniaco, mia madre italiana. Per sette anni, da quando ne avevo 12, ho vissuto in una comunità ma non è che vado in giro con questa scritta sulla maglietta. Ho cominciato a sentire che la comunità mi faceva bene attorno ai 17 anni, cinque anni dopo esserci entrata. Il mio obiettivo, prima, era quello di rientrare a casa. Credo che la consapevolezza di non poterci tornare, anzi che era meglio per me non tornare, sia arrivata insieme alla percezione della comunità come opportunità».

Inizia così una chiacchierata con Adina – che oggi è segretaria nella sede nazionale dell’associazione Agevolando – in vista della seconda Conferenza Nazionale dei Care Leavers che si svolgerà a Roma il 29 gennaio. Adina ha conosciuto l’associazione a 18 anni, partecipando lei stessa a un progetto per l’inserimento lavorativo dei giovani in uscita dai percorsi di accoglienza in affido e in comunità. Ogni anno circa 2.400 ragazzi che vivono fuori dalle loro famiglie di origine si ritrovano ufficialmente adulti allo scattare dei 18 anni e di conseguenza accompagnati (o spinti, dipende dai casi) fuori dai percorsi di accoglienza destinati ai minori. Da qualche anno alcune associazioni sono riuscite ad accendere i riflettori su questi ragazzi (care leavers in inglese) e sulle loro specifiche esigenze, con la nascita del Care Leavers Network e di un fondo sperimentale da 15 milioni di euro dedicato a finanziare l’avvio dei loro percorsi di autonomia.

Ho cominciato a sentire che la comunità mi faceva bene attorno ai 17 anni, cinque anni dopo esserci entrata. Il mio obiettivo, prima, era quello di rientrare a casa. Credo che la consapevolezza di non poterci tornare, anzi che era meglio per me non tornare, sia arrivata insieme alla percezione della comunità come opportunità

Adina

Adina vive in un appartamento con le travi a vista, che profuma di olio essenziale di ambra: «È la mia casina», dice. Sopra al divano, attorno alle travi ha avvolto fili di piccole luci bianche, come quelle che si usano a Natale: «Quando le accendo, quello diventa un angolo molto accogliente, mi piace proprio». “Casa” quel posto ha iniziato a sentirlo dopo due o tre anni che ci viveva: «Penso che un ruolo fondamentale lo giochino le persone: questa casa è diventata mia quando ho cominciato a viverla in compagnia e devo dire che dopo 7 anni di convivenza con 11 ragazze, per due o tre anni ho fatto un po’ l’eremita», ammette. Su quel divano, all’inizio, Adina sprofondava la sua solitudine: «Ho un ricordo molto nitido di me che rientro a casa dopo la scuola, mi siedo sul divano e non riesco a fare niente. Avvertivo che la mia vita stava cambiando tantissimo e non ero in grado di reagire. Parlando con altri ragazzi, abbiamo capito che è questa della solitudine è una sensazione molto comune».

Da qui la riflessione: «Penso che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato nell’educazione all’autonomia e all’indipendenza, che ti inculca il concetto che devi fare tutto da solo. Ti senti addosso la pressione. L’aspettativa di tutti è questa: in sei mesi devi imparare a fare tutto da solo. Devi trovarti una casa, un lavoro che ti permetta di mangiare e pagare l’affitto, contemporaneamente però devi anche studiare… Il “mantra” è devi farcela da solo, sei in balia di te stesso, non potrai chiedere aiuto a nessuno… Tutto questo non è giusto, anche perché è quasi una visione distorta. Tutti noi viviamo in una società, con contatti, relazioni, affetti… nessuno fa da solo. Quello che devi imparare è fare le cose insieme agli altri. Devi imparare a generare incontri positivi, a fare sinergia, a trarre positività dagli altri. La solitudine invece è come un mostro che si siede accanto a te sul divano e ti dice “devi fare da solo, perché hai solo stesso”». Ecco. «Più che all’indipendenza, forse, bisognerebbe educare all’interdipendenza».

La pressione è forte. Tutti si aspettano che in sei mesi impati a fare tutto da solo. Quello che devi imparare invece è fare le cose insieme agli altri: generare incontri positivi, fare sinergia, trarre positività dagli altri. La solitudine è come un mostro che si siede accanto a te sul divano e ti dice “devi fare da solo, perché hai solo stesso”. Più che all’indipendenza, forse, bisognerebbe educare all’interdipendenza

Adina

Quando è uscita dalla comunità ed è andata a vivere da sola, Adina faceva la quarta superiore. Per due anni mentre studiava ha dovuto guadagnarsi da vivere. Per capirci, 300 euro di affitto e 450 di entrate, in media, ma dipendeva dai mesi. Già in terza superiore aveva fatto uno stage, «perché ormai avevo capito che a casa non potevo tornarci». Frasi sentite tante volte, ma amplificate a mille: «per darti un lavoro ti chiedono esperienza, ma non puoi averla se hai 18 anni e stai ancora studiando». La pressione è forte, la preoccupazione a mille: «A me non è successo, ma so di ragazzi che hanno dovuto fare i conti anche con i pregiudizi sull’essere stato in comunità: quando l’hanno detto il contratto di affitto è sfumato. Il pregiudizio più ricorrente? Che siamo tutti tossicodipendenti, perché si associa il termine comunità all’abuso di sostanze, non si pensa mai che il ragazzo sia una vittima», dice Adina.

Cosa ti porti nel bagaglio con cui esci dalla comunità e ti affacci alla vita adulta? «Se lo hai coltivato, il rapporto con gli educatori e con qualche ragazzo che era in comunità con te». Amici di scuola? «Mmm. Diciamo che io non ero “Miss Sicievolezza”. Ho cominciato a farmi qualche amico a scuola solo in quarta». Insomma, le risorse sono davvero poche e non stiamo parlando di quelle economiche. «È che non ti senti mai nella posizione di poter fare domande, di poter chiedere a chi dovrebbe essere un riferimento. Stai lì che aspetti, ma a volte l’altro non immagina i tuoi desideri e i tuoi dubbi. Ancora oggi mi chiedo come facciano tanti adulti che prendono decisioni sui ragazzi ad essere così lontani e distanti. Gli adulti dovrebbero fare uno sforzo in più per metterti nella condizione di poter fare queste domande», riflette Adina.

A questo punto dobbiamo tornare indietro. A quando Adina era bambina. A quando – aveva 12 anni – è stata collocata in una comunità educativa. A un padre con cui «da molti anni non ho rapporti». A una mamma con una patologia psichiatrica, «ma questa cosa sono riuscita ad accettarla da grande e con molta fatica», a cui Adina è grata perché «i valori che ho me li ha passati lei, inclusa la possibilità di riconoscere positività nelle cose che capitano. Con le sue difficoltà c'è sempre stata».

Oggi Adina definisce i suoi sette anni in comunità come un’opportunità, ma ovviamente non è sempre stato così. «È una consapevolezza arrivata dopo, quando ho capito che le proposte e le richieste che mi venivano fatte, puntavano a farmi raggiungere una stabilità, a darmi confidenza, a farmi riconoscere quali capacità avessi. Però un po’ dipende anche da te, dall’attitudine che hai… Se continui a vederci solo antagonisti che ti hanno allontanato dalla tua famiglia, da colpevolizzare…», racconta Adina. Lei per esempio qualche scontro con l’assistente sociale lo ha avuto: «Mai avuto un buon rapporto con loro, ne ho cambiate un po’. La chiamavo ed non era reperibile: era oberata di lavoro, ma l’ho realizzato dopo anni. Facevo una richiesta e la risposta arrivava tardi: non sono andata in gita perché lei non ha dato risposta, mentre un’altra volta avevo chiesto di restare a casa due giorni anziché uno per il mio compleanno… Va bene che di compleanno ce n’è uno all’anno, ma io ci tenevo», ricorda. Tant’è che poi, al contrario, quando da maggiorenne Adina ha incrociato un’assistente sociale propositiva, che ogni settimana la chiamava per sapere come andava, «io l’ho sentita molto invadente e l’ho allontanata, non sono riuscita a farmi aiutare e a lasciarla entrare nel mio percorso in maniera positiva».

Con alcune delle ragazze con cui è stata in comunità, Adina è rimasta in contatto: «siamo quasi sorelle: le vite hanno preso strade differenti ma ci si aggiorna e ci si vede. Con altre invece no. Ma quelli che sono stati i miei educatori, fanno ancora tutti parte della mia vita». Il filo con la mamma, non lo ha mai interrotto: «anzi i nostri sono migliorati negli ultimi anni». Adina e tutta l’équipe lavoravano, come peraltro dice la legge, lavoravano sul suo rientro: «l’obiettivo del progetto era quello, chiaro per tutti. Ci abbiamo lavorato e ci stavamo avvicinando. Il percorso ha avuto una “derapata” quando io a 17 anni, vicinissimi all’obiettivo, mi sono resa conto che c’era qualcosa che mi faceva stare male e che questo qualcosa era proprio l’idea di rientrare a casa. È stato un fulmine a ciel sereno. Ho fatto la mia scelta: l’amore per mia madre c’era e c’è, ma per me era meglio non rientrare».

L’obiettivo del progetto era chiaro a tutti, il rientro a casa. Ci abbiamo lavorato e ci stavamo avvicinando. Il percorso ha avuto una “derapata” quando io a 17 anni, vicinissimi all’obiettivo, mi sono resa conto che l’idea di rientrare a casa mi faceva stare male. Ho fatto la mia scelta: l’amore per mia madre c’era e c’è, ma per me era meglio non rientrare

Adina

Oggi Adina lavora per Agevolando, un’associazione nata proprio da ragazzi che hanno fatto l’esperienza di vivere fuori dalla loro famiglia di origine. Crede molto nella causa di migliorare il sistema dell’accoglienza, che «non è perfetto ma positivo e soprattutto ha le sue motivazione di esistere». Tante cose si potrebbero fare, ma sulla prima Adina non ha dubbi: la base di partenza sono «le relazioni». Perché «le persone le devi conoscere». Soprattutto «se fai l’assistente sociale o l’educatore, hai davanti una persona con dei sentimenti e solo l’incontro fa in modo che si generi uno spazio di comunicazione. Invece a volte è come se tutti avessero paura di creare questo spazio. Si parla tanto di partecipazione, ma una cosa è parlarne e un’altra è realizzarla. È più faticoso cedere parte della propria responsabilità, me ne rendo conto, ma dopo che hai impostato le cose così, ciò che da quello spazio di scambio viene restituito è altissimo». In concreto «si tratta di creare occasioni per cui i ragazzi stessi si siedano accanto alle persone che devono prendere le decisioni su di loro. Che siano protagonisti attivi e reali della loro esperienza. Questo passaggio fa sì che quel che si decide sia efficace per tutti. Perché le decisioni calate dall’alto, dagli estranei – diciamocelo – sono inutili».

Foto Unsplash. Il cactus è proprio il simbolo scelto dai ragazzi del Care Leavers Network, «perché le nostre storie sono spesso caratterizzate da spine, ma questo non ci impedisce di spiccare il volo e aver voglia di realizzare i nostri desideri». Il cactus è simbolo di resilienza: davanti alle avversità ci si può arrendere o si può uscire rafforzati e trasformati positivamente.

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