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Com’è difficile farmi abbandonare dai miei personaggi

Fabio Caramaschi

di Maurizio Regosa

Quello di Fabio Caramaschi, insegnante elementare e regista, potremmo definirlo “cinema di prossimità”. Con i personaggi che pesca dalla realtà inizia una lunga frequentazione: per il suo ultimo lavoro, Sola andata, che racconta la storia di due giovanissimi fratelli tuareg nati nel deserto del Niger e che si trovano separati dal loro destino di migranti, ha impiegato dieci anni. Frequentazione che spesso si tramuta in amicizia, in legame fiduciario. E poi nasce il film. Con tutti i crismi e parecchia innovazione: «Parto da una sceneggiatura molto dettagliata, per chiarirmi le idee, per rendere più attraente il film agli occhi di un potenziale produttore. Poi però rimane sempre un’opera letteraria: il film prende una vita diversa e il lavoro sul campo è spesso sorprendente».
Da dove viene questa impostazione?
Da un approccio antropologico. Sono stato fotografo di scena e poi ho realizzato alcuni reportage etno-antropologici, per esempio in Zaire. Negli anni 90 ho lavorato parecchio in televisione, realizzando reportage per programmi d’inchiesta.
La scuola quando è arrivata?
Nel 1995 sono diventato maestro e, fatto il primo ciclo dalla prima alla quinta, ho scelto il part-time. In una scuola di Bravetta, sobborghi di Roma, mi occupo del Laboratorio multimediale Mastroianni: con i bambini il primo anno vediamo molte fotografie, molti film, poi al secondo anno si comincia a scrivere tutti insieme per realizzare un video.
Il laboratorio ai bimbi piace?
È un’esperienza che cambia la vita: farla vuol dire capire il linguaggio ed essere più consapevoli. Capiscono di potersi esprimere e poi vedersi rappresentati li rassicura.
In tutti i film mette i protagonisti davanti alla macchina da presa. Spesso fanno delle interviste ad altri. Perché?
I film cambiano i personaggi che vi partecipano, per questo lascio molto spazio alle persone che vogliono esprimersi. Ho una visione quasi terapeutica del cinema. Le persone capiscono che sono veramente interessato a loro. Non è un atteggiamento strumentale: io stesso mi espongo molto. Si crea un rapporto di fiducia, e la macchina da presa ci fa da ponte, non ci separa. Le storie che ho raccontato hanno cambiato anche a me.
In che senso?
“Purtroppo” sono costretto a seguire i miei personaggi. Ad esempio, i tuareg protagonisti di Sola andata, che conosco da dieci anni, li ho appena sentiti: è nata la loro quinta figlia e l’hanno chiamata Zeinab, cioè “Luce”. Insomma, il mio problema non è trovare le storie, ma liberarmene.
Come nasce “Sola andata”?
Questo film conclude una sorta di “trilogia della paternità” un approfondimento sul rapporto padre/figlio. Il documentario racconta la vita dei tuareg in Italia e quella di un figlio che rimane in Africa coi nonni: nasce libero e, in qualche modo, arrivando in Italia perde la sua libertà. È come se facesse un viaggio di 5mila anni, partendo da un mondo in cui la natura governa tutto. È naturale che ne abbia nostalgia. Abbiamo bisogno di queste persone: ci ricordano che è possibile vivere in un altro modo. Non voglio rinverdire il mito del buon selvaggio, solo sottolineare che l’esistenza in Niger ha una dimensione comunitaria molto diversa dalla nostra.
Il suo cinema sembra viaggiare fuori dal tempo…
Diciamo che non mi preoccupo del ritmo nel senso televisivo. Dal punto di vista linguistico, i miei documentari sono abbastanza distanti da quelli classici: cerco di fare un montaggio serrato. La cosa essenziale è che un film svegli la partecipazione del pubblico, la sua emozione.
Del film lei è anche produttore.
Una autoproduzione forzata. In Italia i documentari sono considerati poco interessanti, tranne quelli stile Geo&Geo. Del resto è difficile andare da un produttore, chiedergli 100mila euro dicendogli: «Se tutto va bene, ne recuperi 20mila». Per cui alla fine ho pensato di coinvolgere molte piccole produzioni e di contenere le spese: Solo andata, per esempio, è costato 50mila euro, anche perché io stesso ho coperto molti ruoli, dalla scrittura del soggetto alle riprese.
Lo Stato non aiuta…
In Francia il 51% della produzione è di documentari, in Italia la percentuale scende allo 0,7%. Da noi le co-produzioni sono rare. Io sono un artigiano che è riuscito a inserirsi nell’industria e a far vedere i suoi lavori. Ora il web dà delle possibilità nuove, ma con un paradosso: Internet ti aiuta a far girare il tuo lavoro, ma gratis. Quindi sei scoperto sul fronte delle risorse. Per Sola andata avrei potuto cercare delle strategie distributive diverse, ad esempio coinvolgere le associazioni che si occupano di immigrazione. Ci ho pensato, poi ho preferito andare in totale autonomia. Molte mi chiedono di mostrarlo. Forse potrebbero sostenere la realizzazione del dvd.

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