Cultura

Come costruire pontibcon pennelli e colori

arte di pace Ali Hassoun, artista di successo con una doppia anima

di Redazione

N on ha l’aria bohémienne da artista, al di là dei capelli ricci spruzzati di grigio raccolti in una coda. Ma di Ali Hassoun, pittore libanese, colpiscono gli occhi. Indagatori, curiosi, occhi da artista che scruta il reale per scoprire cosa ci cela agli occhi di tutti noi che spesso ci fermiamo all’apparenza delle cose. Poco più che quarantenne ha trascorso metà della sua vita in Italia. Qui dieci anni fa ha conosciuto Paola, oggi sua moglie e con la quale ha avuto una bambina. Grazie all’esperienza di Yalla Italia è entrato in contatto (o meglio in amicizia) con Vita . Con lui abbiamo voluto chiudere questa carrellata di sguardi sul 2009, perché ci ha affascinato il suo approccio pacifico ai grandi temi dell’attualità. La sua arte è un’arte che costruisce amicizie, che comunica stima verso tutti i mondi che tocca e rappresenta. A lui la parola.
Vita: Ali Hassoun, come nasce la sua arte? Il suo desiderio di dipingere?
Ali Hassoun: Mi tornano alla mente tante cose. Nell’infanzia ho il ricordo di mio nonno materno, era un vasaio. Vivevamo in un villaggio vicino a Sidone, Gazieh. Lo rivedo mentre faceva vasi e salvadanai al tornio e poi li decorava con le dita. Mia madre ricamava. Certo, i primi disegni li ho fatti a scuola, me ne ricordo uno alle medie: un gatto che gettava la lisca nel cestino per invitare a tenere pulita la scuola. Ma la grande scoperta l’ho fatta a 13 anni. Ero a Beirut con mio padre in viaggio di lavoro e in una libreria ho visto un volumetto sulla Cappella Sistina di Michelangelo. Tutti i libri erano in francese, e io il francese non lo capivo. Quindi guardavo le fotografie. È stata una grande scoperta, una folgorazione.
Vita: Anche perché la cultura musulmana è una cultura senza immagini…
Hassoun: Ma il Libano faceva storia a sé. C’erano artisti che avevano accompagnato l’indipendenza dalla Francia, ed erano cristiani-maroniti. Non è che ci facessi caso. Ad esempio mi piaceva Qaysar Gemayyel. In una rivista ho visto la fotografia di lui che ritraeva il primo presidente del Libano, Bishara El-Khoury. Per me quindi il ritrarre faceva già parte della cultura libanese. Se fossi nato in Giordania o in Arabia Saudita forse non avrei potuto fare questo percorso. Ma il Libano è una terra di frontiera dove le culture si mescolano, lo stesso Gibran era anche un pittore, ed era vicino al sufismo.
Vita: Però lei non ha dimenticato la cultura figurativa araba che era tutta calligrafica…
Hassoun: Sono cresciuto con la cultura dell’immagine e anche della calligrafia. Venivano i camionisti che volevano che gli facessi le scritte sopra il vetro, tipo quelle che fanno a Napoli: «Papà vai piano», o qualche versetto del corano di protezione, tipo «Allah è con te!». Nel frattempo a scuola i compagni di classe cristiani mi chiedevano di dipingere dei santi, come San Giorgio che uccide il drago. A 16 anni ho copiato quello di Raffaello con il cavallo bianco.
Vita: Ritiene che il poter dipingere in questo modo, cioè il non poter rappresentare il corpo umano in questo modo, sia una cosa che la cultura musulmana ha perso?
Hassoun: Sono due percorsi che dovevano sviluppare le due culture separatamente. Il mondo musulmano ha questa idea dell’astrazione della divinità. Il divino non poteva essere rappresentato. Invece nel mondo cristiano la divinità si fa uomo, Cristo. La presenza del divino come uomo è più sviluppata.
Vita: Come pittore prova invidia per una cultura che ha permesso la rappresentazione del divino?
Hassoun: Verso il figurativo tanta. Ma sono venuto in Italia apposta. Già in occasione del mio primo viaggio, avevo 19 anni, una ragazza mi aveva portato a vedere Caravaggio a San Luigi dei Francesi. Da allora tutte le volte che vado a Roma devo andarlo a rivedere, e via via vedo i cambiamenti, la luce. All’accademia all’inizio è stato come se l’arte per me non potesse essere quella contemporanea. Per me l’Occidente non aveva ancora fatto il taglio di Fontana. Sono rimasto in un mondo un po’ anacronistico, però è stato un bene perché mi ha protetto dalla dispersione. Ho lavorato molto sulla tradizione.
Vita: Della tradizione italiana l’ha colpita di più il filone delle forme che non quello del colore, cioè più il mondo fiorentino, toscano, romano che non quello veneziano…
Hassoun: Forse all’inizio. Poi pian piano ho approfondito. Per esempio, quando vado in un posto vedo Tiziano e in quel momento divento Tiziano, cioè mi arrendo. Come fai a dire che ti piace più una cosa dell’altra, è tutta la storia dell’arte un libro aperto dove ti emozioni, ti fai trasportare. In quel momento vorresti essere tu l’artefice di quelle cose. Vai lì, impari, apprezzi e poi nei fai uso per quello che hai da dire oggi.
Vita: Le è capitato nella sua comunità di discutere di queste cose, per esempio, con altri artisti?
Hassoun: Arif El Rayyes – era il direttore dell’Accademia delle belle arti – in un certo senso ha stabilito il mio destino. Aveva studiato a Roma come Mustafa Farruk. Lui faceva anche dei nudi femminili molto belli, sensuali, un po’ alla Modigliani, molto moderno. È stato lui a dire a mio papà di lasciarmi andare sulla strada della pittura. Per tanti anni sono stato lontano dal mondo dell’arte mediorientale, araba in generale. Solo ultimamente ho iniziato a conoscere un po’ più gli artisti della nuova generazione. Per questo il confronto non c’è stato direttamente, se non con quelli che lavorano in Italia.
Vita: All’interno della comunità musulmana, come hanno accolto questa sua scelta?
Hassoun: Quando frequentavo la moschea o la comunità sufi, facevo vedere i cataloghi. Tutti mi dicevano che ero bravo, ma qualcuno mi chiedeva perché mettessi dietro alle figure in primo piano Michelangelo, come se disturbasse il fatto che io non mettessi solo figure islamiche o che dipingessi l’immagine di Dio creatore di Michelangelo.
Vita: E lei come rispondeva? Hassoun: Che Michelangelo era figlio di un’altra cultura e ha potuto raffigurare Dio . A me interessava documentare come un’altra religione impattasse con il divino. E questo porta la dimensione locale a confrontarsi con quella globale.
Vita: Non è mai stato censurato?
Hassoun: Quando hanno fatto un allegato da distribuire nei Paesi arabi con i miei lavori – era un progetto con l’Unesco – ho mandato 24 immagini. Per entrare in alcuni Stati come l’Arabia Saudita e il Qatar c’è stata la censura. La copertina era dedicata a un mio lavoro e alcuni sfondi sono stati cancellati in tutto o in parte. Per esempio, il volto di Dio di Michelangelo lo hanno passato con l’aerografo per cancellarlo, ma la mano è rimasta, le nudità le hanno ricoperte con delle brache. Attraverso la censura vedevi un po’ tutta la nostra cultura. In un quadro Omaggio a Guttuso c’era la Crocifissione ed è stato tagliato in modo che non si vedesse la croce per intero. Perché questa idea della crocifissione non c’è nel Corano.
Vita: Se non ci fosse stato il cristianesimo con questa idea – che può essere folle – di Dio che si è fatto uomo, sarebbe stato possibile un Michelangelo?
Hassoun: Secondo me, no. Questa rottura di Dio che si fa uomo apre una prospettiva rivoluzionaria. Sicuramente è qualcosa che ha dato il via a tutta la tradizione figurativa occidentale. Anche lo stesso Chagall, che viene dalla tradizione ebraica, comincia a raffigurare anche Cristo sulla croce, ma con il tallit ebraico. Venendo alla contemporaneità, io trovo delle intuizioni grandiose in chi fa delle installazioni o chi lavora in maniera diversa o la figurazione stessa con l’astrattismo, sembra che l’astrattismo riprenda ciò che è all’origine della rivelazione.
Vita: Non le è mai venuta la tentazione di rifugiarsi nell’astrattismo?
Hassoun: No, sarebbe stato incoerente. Sarebbe stato incoerente riportare tutta la mia esistenza in un verbo astratto fuori da noi. Per il mio vissuto è normale per me vedere il divino nel volto, nello sguardo ad esempio di mia moglie. Per questo dipingo l’essere umano. All’inizio un po’ di spalle perché non c’era questa cosa diretta, poi pian piano di profilo e ora faccio ritratti. Ho metabolizzato questa idea: un Dio fuori dalla creazione, ma anche completamente impregnante la stessa creazione.
Vita: Il volto di sua moglie è stato importante…
Hassoun: Eccome! L’ho conosciuta nel 1998 e da quel giorno non ci siamo più lasciati. Le ho fatto diversi ritratti, portando poco alla volta la sua immagine sempre più riconoscibile. In uno ho messo sullo sfondo un riferimento al Cantico dei cantici, attraverso la gioia degli ignudi della Cappella Sistina, personaggi che diventavano degli angioletti. Lei infatti sta leggendo il Cantico, e gesticola secondo il suo stile molto calabrese.
Vita: La sua è una pittura sempre molto positiva. Eppure viviamo un momento tragico di contrasti tra mondi diversi…
Hassoun: Non mi piace fare cose angoscianti, ho uno sguardo positivo sul mondo anche se ammetto che è un mondo tragico. Quindi cerco attraverso la pittura di tradurre concetti gravi, in qualcosa di molto più sereno. Ho anche cominciato a riproporre la calligrafia come sfondo, come un qualcosa che ha una validità intrinseca alla figurazione.
Vita: Veniamo al suo quadro Piazze d’Italia . Erano i giorni delle polemiche sulla moschea di viale Jenner e lei ha riempito le piazze di De Chirico e di musulmani in preghiera…
Hassoun: C’è qualcosa in De Chirico che fa parte profondamente della cultura italiana. La metafisica mi ha sempre impressionato, ed è una dimensione che non deve essere persa. Artisti contemporanei stanno dimenticando il rapporto tra il microcosmo e il macrocosmo, che è invece una dimensione cruciale da Platone in poi. Una dimensione che accomuna tutte le culture, Islam compreso. Ma l’uomo occidentale sta perdendo questa dimensione.
Vita: Nella Rinascita di Venere ha dipinto una elegantissima modella occidentale il cui vestito sembra confondersi con lo sfondo, che è invece un “murales” tutto calligrafico. È il quadro che rende l’idea del suo voler essere ponte tra due culture…
Hassoun: È proprio così. Io mi identifico con il personaggio in primo piano. È come se dicessi: «Guardate, io sono di qui, sta crescendo in me questa nuova appartenenza, sono italiano». Ma è anche un discorso di reciprocità, perché pure io ho da dare qualcosa. Se uno dimentica completamente le sue origini è come se avesse perso. Invece io ho questa voglia di dipingere grazie a quello che mi è stato dato, dalla mia famiglia, dalla mia estrazione culturale, dalla mia religione. Anche se sopravvengono delle contraddizioni, non bisogna rinunciare mai a queste due dimensioni.

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