Welfare

Come ci salgo sul lettino del ginecologo?

Il Gruppo Donne UILDM presenta una ricerca sull'accessibilità dei servizi di ginecologia e ostetricia per le donne con disabilità. E scopre un mondo inaccessibile.

di Sara De Carli

Il 42.62% degli ambulatori ostetrico-ginecologici non ha un bagno accessibile alle persone con disabilità. Solo il 23% ha uno spogliatoio sufficientemente ampio da consentire il movimento di una persona in sedia a rotelle e che garantisca la riservatezza della paziente nella fase preparatoria alla visita. Medici e infermiere in generale sono impreparati a gestire le manovre di movimentazione delle pazienti in sedia a rotelle, per consentire loro di raggiungere il lettino ginecologico. È rilevante e insieme sconvolgente, infine, scoprire che solo una minima parte dei medici che svolgono le visite ostetrico-ginecologiche ha ricevuto una formazione sulle diverse disabilità (motoria, sensoriale ed intellettiva). Questi dati emergono dall’indagine condotta dal Coordinamento del Gruppo donne UILDM sul tema "L'accessibilità dei servizi di ginecologia e ostetricia alle donne con disabilità" (in allegato).

Non è un trattato sull’accessibilità dei servizi sanitari, ma una fotografia (61 le strutture sanitarie coinvolte) per riaffermare il concetto che non si possono progettare e realizzare servizi sanitari senza conoscere il punto di vista delle e degli utenti dei servizi in questione. Più volte per le donne disabili si è parlato di una “doppia discriminazione”, quella della disabilità e quella dell’essere donna: per questo è nato il Gruppo Donne Uildm. Sui servizi ostetrico-ginecologici ad esempio le donne con disabilità raccontano di come qualche volta si rivolgono al privato, pagando. E se anche l’ambulatorio privato è inaccessibile, sempre pagando, si può ottenere una visita domiciliare: per quella ginecologica in fondo non richiede l’uso di una strumentazione particolare. Qualche volta si attivano le reti informali (“l’amica ginecologa”). Qualche volta le donne si tengono il fastidio, sperando che passi, sperando che non sia niente. E la prevenzione? Quale prevenzione? Fare ricorso? A volte lo fanno, ma non si può passare tutta la vita a fare ricorsi. La storia è sempre la stessa: o non entrano nell’ambulatorio, o i medici non sanno dove mettere le mani, e come ci arrivano sul lettino ginecologico? E come si visita una donna interessata da autismo che non accetta il contatto? Dopo aver sentito tanti racconti di donne con disabilità che parlano delle difficoltà incontrate nell’accedere ai servizi di ginecologia e ostetricia, il Coordinamento ha deciso di svolgere questa indagine.

I dati raccolti hanno evidenziato come nella progettazione, nella realizzazione e nell’organizzazione dei servizi sanitari non sia stato ancora recepito un approccio sistemico dell’accessibilità, ossia un modo di guardare all’accessibilità che non si limita a considerare i singoli ambienti o servizi, ma colloca gli stessi all’interno di un sistema complesso, di ambienti e servizi, coordinato e funzionante. In base a quest’approccio assumono rilevanza aspetti come i tempi di apertura al pubblico dei servizi sanitari oppure la presenza di un centro unico prenotazioni (solo il 42.62% degli enti coinvolti dichiara di averne uno), la presenza di una reception (presente nel 52.46% dei casi ma in 7 casi è stata segnalata la presenza di ostacoli lungo il percorso per raggiungerla e in altrettanti non c’è la possibilità di avvicinarsi agevolmente al banco informazioni con la sedia a rotelle).

«Il nostro scopo era ed è quello di denunciare le lacune riscontrate, e la conseguente discriminazione subita dalle donne con disabilità nell’accedere ai servizi sanitari, per consentirne la rimozione, e di promuovere un modo diverso di pensare all’accessibilità degli ambienti sanitari», dicono le donne del gruppo. «Se ancora oggi molte donne con disabilità non riescono ad accedere ai luoghi e ai servizi sanitari, non dipende dal fatto che loro hanno una disabilità, ma dalla circostanza che spesso questi luoghi e questi servizi sono progettati, realizzati, organizzati e gestiti male, assumendo come unico standard di riferimento il/la “paziente sano/a”, senza considerare le tante diversità (di età, di genere, di condizione fisica, di etnia, ecc.), e senza coinvolgere l’utenza nella fase di progettazione. Chi progetta un ambiente ed un servizio sanitario progetta un’idea di salute, e non è più ammissibile, né tollerabile, che questa idea di salute si sottragga al confronto con le diversità che ogni essere umano, ognuno e ognuna a proprio modo, incarna.
 


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