Barbara e Giorgio Cabodi hanno due figli, Daniele e Gioele, di 8 e 4 anni. Tutto normale, se non fosse che il primo è stato “fatto in casa” e il secondo adottato in Africa. «Nessun figlio ci appartiene, tutti sono doni che ci vengono affidati», dice Barbara, che racconta la sua idea di famiglia come di un nucleo «aperto, accogliente, non necessariamente legato da vincoli di consanguineità». Così, dopo la nascita di Daniele, Barbara e Giorgio hanno annunciato ai parenti di desiderare un secondo figlio attraverso l’adozione. L’incontro con Enzo B, l’ente che da Grugliasco (Torino) li ha portati fino a Kinshasa, è stato fortuito. «Avevamo un’idoneità con molti vincoli, per la presenza del figlio biologico», spiega Barbara. «Siamo arrivati al Congo per esclusione, ma senza nutrire particolari preferenze». E come è andata con la famiglia? «La procedura all’estero è stata abbastanza rapida: nel giro di una settimana siamo andati in Africa e rientrati. I nonni si sono ritrovati a metabolizzare il fatto che avevano un nuovo nipotino, che quel nipotino era africano, e che quell’africano scorrazzava già per casa».
Ma la scommessa riguardava l’accoglienza di Daniele. «Aveva tre anni e mezzo, si trovava nell’età in cui si desidera un fratello», racconta la mamma. «Dapprima c’è stato l’entusiasmo, poi la crisi. Abbiamo ricevuto un grande supporto nel post adozione e siamo stati fortunati anche in ambito scolastico. Credo che gran parte del successo dell’integrazione di Gioele sia merito di Daniele». Il mondo esterno accoglie la famiglia Cabodi con curiosità e stupore. «Gioele non passa inosservato», ammette Barbara. «Ma finora non abbiamo mai vissuto il problema della discriminazione, anzi, c’è molta curiosità. Prima di fare questa adozione mi sono chiesta spesso se fosse giusto allontanare così tanto un bambino dal suo ambiente, dalla sua latitudine. Adesso che Gioele è con noi so che ho ricevuto un dono e che siamo chiamati a farlo crescere nel migliore dei modi. E a rendere questa esperienza un dono anche per gli altri».
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