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Banca & sociale

Com’è bello fare l’impact da Trieste in giù

L'ex-Banca Prossima, oggi Direzione Impact di Intesa Sanpaolo, coinvolge i suoi 600 addetti in un training realizzato all'interno di opere sociali ed educative. Un viaggio in 11 tappe, dalla città giuliana a Matera. Tutti insieme, dal numero uno, Andrea Lecce, fino alle persone delle singole sedi territoriali. VITA ha chiesto di potere seguire una giornata, quella di Padova, dentro una scuola professionale del Terzo settore

di Giampaolo Cerri

La banca più sociale d’Italia: l’ad Carlo Messina lo ripete spesso, quando snocciola i numeri degli impegni del gruppo, le centinaia di milioni investiti, le persone dedicate. Nelle conferenze stampa, i giornalisti s’intignano a chiedergli delle nomine dell’Associazione bancaria italiana – Abi: non capiscono – o fingono di non capire – perché il banchiere più importante d’Italia, s’impunti ogni volta nel voler ricordare questi impegni, perché richiamare sempre il ruolo delle fondazioni azioniste, perché rivendicare questa attenzione alle diseguaglianze, al Terzo settore, alla povertà educativa.

La Direzione Impact guidata da Andrea Lecce – la ex-Banca Prossima – sta dentro quel perimetro: è la struttura dedicata al non profit, quella che capillarmente si rapporta a quei clienti specialissimi che sono associazioni di volontariato, fondazioni, cooperative sociali.

In giro per i territori

Lecce è arrivato a guidarla nella primavera 2022, ed era subito partito nei territori, a incontrare le associazioni: due giri in lungo e in largo nell’Italia sociale, prima le piccole città, poi le grandi. Aveva raccontato a VITA le sue impressioni (si legge qui).

Quest’anno un altro viaggio, stavolta dedicato alle persone che lavorano per Impact nelle varie aree. Incontri realizzati sempre in luoghi sociali, in dialogo con chi quei luoghi fa vivere. E poi momenti di dialogo fra quelli che stanno di qua dalla scrivania, i funzionari, gli impiegati, i bancari che però, a differenza di molti altri colleghi, sono sempre più abituati ad ascoltare di chi deve prendere in affitto una sede più ampia, aprire uno sportello, progettare un hospice, far partire una nuova classe di un liceo professionale.

Quelli di Impact in giro per l’Italia partecipano a queste giornate, 11 da Trieste fino a Matera, arrivano preparati su un tema – quest’anno «la bellezza» – con riflessioni da condividere e testimonianze personali: di chi incontra esperienza di bellezza sociale stando al desk della banca, di chi fa volontariato in prima persona, di chi impara dal lavoro che fa e dalle persone che incontra. VITA ha ottenuto di poter partecipare a uno di questi momenti.

Non è team building

«No, non scriva che questo è team building», ci dice Lecce mentre un 15-16enne d’origine cinese, che frequenta la scuola della Fondazione San Nicolò a Noventa Padovana – Matteo sicuramente di nome, intrascrivibile invece il cognome – ci serve un Sauvignon neozelandese. Matteo è uno studente del corso di Sala bar della scuola professionale: uno dei tanti che imparano qui molto più di un mestiere. Come conferma Federico Pendin (foto sotto, ndr), il presidente della fondazione, citando l’apologo di Charles Peguy da L’Argent: «Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta». Nella scuola ricavata dall’ex-capannone industriale, assicura il presidente, «si vuol bene ai ragazzi per quello che sono», si insegna loro «a fermarsi a guardare al lavoro che fanno».

Il presidente di Fondazione S.Nicola di Noventa (Pd), Federico Pendin, racconta
la scuola al gruppo della Direzione Impact

È stata Silvia, una delle quarantina persone di Impact che seguono il corso, a proporre quella location e quella fondazione: aveva visto svilupparsi in quegli spazi già dai tempi di Banca Prossima, diventare una scuola viva, attrarre tanti giovani che rischiavano di essere drop-out o lo erano già.

La stessa Silvia, con altri quattro colleghi, racconta la propria storia a quel piccolo e concentratissimo uditorio: «Mi ha colpito ascoltare una ragazzina di questa scuola, raccontare la propria esperienza felice a Noventa: “Ero solo dislessica”, aveva concluso, stupendo chi la ascoltava per questo giudizio maturo malgrado i suoi 11 anni. Mi ha ricordato l’esperienza di una cara amica di infanzia: a scuola gli insegnanti l’avevano sempre considerata o stupida o lavativa. Invece, anche lei, era “solo dislessica” e le ho sempre passato i compiti», ricorda, commuovendosi ancora.

Seguono i racconti di esperienze di volontariato personale dei colleghi della Direzione Impact, a ricordare il valore, specialissimo, di quella speciale clientela. Tutti a cercare la bellezza che è appunto il tema di queste giornate: bellezza nella propria vita, nel proprio lavoro, nella realtà. O bellezza come domanda.

La bellezza ci appartiene

Come Benedetta, che racconta di quando si trovò a instradare i due bambini di una madre immigrata ammalata, accolta in una realtà sociale in cui era tirocinante universitaria, verso un’altra comunità, doveva aveva svolto lo stage precedente: «Mi ero sempre ripromossa di non mescolare l’ambito di studio e quello degli affetti», racconta, «ma quella vicenda mi coinvolse tantissimo e non riuscivo a tenere separate le cose. Un’esperienza così forte che mi ha portato a ripensare la mia personale idea di maternità, che ero convinta di aver accantonato».

O come Stefano, che propone ai colleghi la propria personale percezione di bellezza: un video con due fratellini. Uno, il più piccolo, parla dell’altro, dice che il migliore fratello del mondo, perché al mattino lo fa ridere sempre. Chi parla è bimbo con sindrome di Down, avrà si è no otto anni, guarda il fratello, poco più grande, con occhi sognanti, lo abbraccia, ride. L’aula di Noventa si commuove, per quella bellezza allo stato puro.

Gli abbracci che commuovono

Poi chi parla propone di seguire un brano di musica classica a occhi chiusi. Parrebbe un esercizio di meditazione ma invece, lentamente, silenziosamente, Stefano si avvicina ai colleghi assorti, si china, uno a uno, al loro orecchio, chiede di alzarsi e aprire gli occhi: non appena lo fanno, lui li abbraccia per qualche secondo.

Anche Andrea Lecce, di spalle, partecipa all’esperimento degli abbracci

Sono per lo più uomini e donne di mezza età, vengono da sedi diverse, molti non si conoscono fra loro, ma si fanno abbracciare e abbracciano. Alcuni si commuovono, incluso il vostro cronista che, in quanto tale, aveva seguito a occhi aperti tutta la scena.

«Pensavo a qualcosa che ci permettesse di ricaricare le batterie, in un momento molto difficile, con forti diseguaglianze sui territori per il Terzo settore, durante il quale il nostro sostegno di banca per il sociale è ancora più importante È richiesta tanta comprensione. E noi facciamo la nostra parte».

Se l’intenzionalità entra in banca

Andrea Lecce parla con pacatezza, non parrebbe uno che ha studiato scienze dell’informazione, che ha cominciato in una Big four della consulenza, per poi percorrere in lungo e in largo la grande banca in diverse posizioni, fino al marketing. Ci si aspetterebbe che questo signore, che tradisce un lieve accento sardo, fosse un filosofo o un sociologo, uno studioso delle organizzazioni.

«C’è da affrontare un tempo difficile», prosegue, «senza perdere la speranza, facendo il nostro lavoro “di banca”, guardando oltre la pratica, offrendo un dialogo, un confronto». E spiega come molte cose dipendano dall’atteggiamento di ognuno, per cui riflettere significa prima di tutto «richiamarci ai valori che ci portano a fare questo lavoro, che è dare supporto all’economia civile».

Uno, Lecce, che non dissimula le proprie idee sul mondo sociale e della sostenibilità, figlie di due anni di due anni di osservazioe ravvicinatissima: «La cosa fondamentale è l’intenzionalità», ci spiega, riprendendo un concetto cardine dell’impatto e cioè l’idea, a monte, di intervenire su una certa realtà, di risolvere un determinato problema. «Soprattutto nel mondo di oggi», racconta, «la sostenibilità e l’attenzione al sociale non devono essere solo etichette. L’intenzionalità parte certamente anche dalla responsabilità che hanno, dal desiderio che la loro realtà, la loro azienda, quell’ambiente abbia certi valori, ma non è sufficiente, perché deve essere anche un moto da parte delle persone. Quindi», prosegue, «se vogliamo approfondire valori veri che fanno sì che l’intenzionalità ci sia e non sia uno slogan, questo è il motivo profondo che poi porta le persone a lavorare con energia con attenzione e con la voglia di dialogare».

Team thinking

S’è messo in platea come gli altri, Lecce, s’è fatto abbracciare come gli altri, nell’estemporanea performance del collega. A tavola conversa amabilmente, senza la grandeur di chi sta nella parte alta, apicale, degli organigrammi. Dal del tu, senza affettazione, a tutti i colleghi, ciascuno con la propria storia. Ricorda anche lui le tante fasi che hanno scandito il successo del Gruppo, nato da una lunga teoria di fusioni per incorporazione che, da un quarto di secolo, disegna il profilo di una grande banca europea.

«Ho scelto quest’anno il tema “bellezza” ad accompagnare la nostra riflessione, perché quando sono arrivato, sentivo colleghi dire che era il posto più bello in cui erano stati in carriera», ricorda, «Se è stato così anche per me? Certo, ogni tanto lo ripeto al mio responsabile, Stefano Barrese (a capo della divisione Banca dei territori, ndr), che ringrazio per l’opportunità professionale e umana».

Non è più tempo di convention

A questo team building che non è tale – chiamiamolo “team thinking” perché sembra più un allenamento del pensiero e della percezione di sé – partecipano tutte e 600 le persone, come dicono le Risorse umane, di Impact. «Non è più tempo di fare convention», sorride Lecce, «meglio questo viaggio e questo radunarsi per piccoli gruppi. Senza preordinare niente, rimettendo tutto all’autorganizzazione dei colleghi». Ogni volta è diverso, ogni volta è bello. Anche quando, a Firenze, qualcuno nell’urna che raccoglieva i giudizi, sintetici e personali, sulla giornata, aveva vergato l’aggettivo «leggero»: «Se fossero cose calate dall’alto, se no ci fosse spazio per la critica, non funzionerebbero», ci sorride sopra Lecce.


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