Sostenibilità

Coltivare nella lana!

Post Industriale Ruralità, un'associazione che si occupa del recupero di reperti di archeologia industriale, ha avviato un progetto sperimentale di coltivazione nella lana per sensibilizzare su quello che per l'Unione Europea è un rifiuto speciale

di Veronica Rossi

Un vecchio forno di una fornace da calce di Sellero, in Val Camonica, da qualche anno ha una veste verde completamente nuova, costantemente in trasformazione: si tratta di “Partiture tese”, un orto verticale che, in realtà, è un’installazione di arte contemporanea di Francesca Conchieri e Mauro Cossu, dell’associazione Post industriale ruralità, che si occupa di rivalorizzare reperti di archeologia industriale.

Il materiale con cui l’orto è realizzato è molto particolare: le piante crescono non nella terra, ma nella lana.

“La Val Camonica è andata incontro molto presto a un processo di industrializzazione”, dice Conchieri, “ma ci siamo resi conto che questo ha interrotto le tradizionali filiere rurali, la più importante delle quali era quella legata al vello di pecora”. Le greggi al pascolo, infatti, mantengono i prati curati e combattono contro il rimboschimento. Gli ovini della zona però, così come il 70% di quelli sul territorio nazionale, hanno un pelo che non è adatto alla filatura, perché è corto e ruvido. Ma questo non vuol dire che non possa avere altri utilizzi. “Il vello delle pecore nostrane è ottimo per il feltro e, soprattutto, per le imbottiture”, chiosa Conchieri. “Oggi però queste produzioni si sono interrotte ed è un peccato: dormire in cuscini e materassi riempiti di lana ha effetti benefici a livello epidermico e reumatico, al contrario della plastica”.

Ogni pecora genera dai 5 ai 7 chili di vello all’anno e va per forza tosata. Molti pastori, non sapendo dove conferire questo rifiuto speciale, lo interrano; questo materiale, però, si degrada molto lentamente e funge da isolante tra i vari strati del terreno. “Uno dei nostri temi è la lotta all’inquinamento”, continua la donna, “e qua abbiamo un caso gravissimo di contaminazione da Pcb, quello dell’azienda Caffaro; la gente del bresciano voleva coltivare terreni, ma il terreno era insalubre fino a 17 metri di profondità”.

Così, nel 2013, come atto dimostrativo, i rappresentanti di Post industriale ruralità hanno iniziato a seminare nella lana. E si sono accorti che, nel vello di pecora, le piante crescevano molto bene. “Abbiamo fatto delle ricerche per capire perché i vegetali stessero bene in questo materiale e abbiamo scoperto che è ricco di azoto”, conclude Conchieri, “così abbiamo iniziato a fare degli orti e abbiamo anche avviato un’attività di agroterapia con persone disabili. Ora collaboriamo anche con diversi enti e associazioni, come la cooperativa di comunità Filo&Fibra in Toscana o il Crea, ente di ricerca del ministero dell’Ambiente”.

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