C’è qualcosa di profondamente sbagliato nei prodotti di comunicazione che inondano i media, in particolare nei prodotti sociali. C’è qualcosa che non torna, qualcosa che stona, qualcosa che non ci convince fino in fondo. Lo sappiamo perché lo viviamo costantemente. Lo vediamo nelle campagne che fanno discutere. Lo viviamo nelle immagini che, fiere e provocatorie, pervadono i nostri sensi e ci accolgono in tv e sul web. Le respiriamo e tastiamo nelle sensazioni di malessere che ci lasciano lì, latente e per un po’, sulla bocca dello stomaco, come a dirci: “Guarda un po’ che hai fatto. Colpa tua.”.
E accade spesso. Troppo spesso per passare inosservato e per non urtare.
Su questa linea di pensiero, qualche giorno fa, presso la sede del Cesvot di Firenze, si è tenuto l’incontro nazionale di #nonsonoangeli, la fortunata esperienza virale promossa da un gruppo di colleghi che nel giro di poco è cresciuta in modo sostanziale e a cui aderiscono importanti firme del nonprofit italiano. “Ho l’impressione che molti di noi abbiamo una maledetta voglia di angeli” esordisce Marco Binotto, ricercatore dell’Università La Sapienza di Roma e tra i promotori dell’iniziativa. Riflessione che fa pensare ma è più che mai evidente che impoverire e banalizzare azioni e impatti cominci a non funzionare più. Se è vero che la provocazione provoca attenzione e imbarazzo, è vero anche che un eccesso di provocazione crea disagio e irritazione. Sentimenti condivisi, in particolare tra chi opera nel sociale. Mi riferisco ai tanti comunicatori, operatori e volontari che lavorano o prestano il proprio tempo e vogliono, pretendono, che le loro cause vestano di dignità perché a loro volta possano sentirsi operatori, comunicatori e volontari del tutto degni e parte di una causa e non unicamente strumenti al suo servizio.
Cosa sta sotto? Quello a cui assistiamo è un cambiamento profondo e una rottura con il passato senza precedenti.
“Noi non sappiamo raccontare perché non sappiamo come si costruisce l’individualità in una società complessa – spiega Carlo Sorrentino, professore ordinario del dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. E continua – Non sappiamo creare relazioni con gli sconosciuti. E così i media raccontano le storie attraverso l’eccezionalità, il sensazionalismo. Ma il discorso dell’uomo che morde il cane, come si dice in gergo, non funziona più e i media sono sempre più consapevoli che raccontano storie sempre meno interessanti e sempre più consapevoli di vivere in crisi di credibilità. Avere un buon giornalismo e una buona informazione è un problema di democrazia. Il mondo è molto più denso di come appare e non può essere banalizzato dal racconto dell’eccezionale. Occorre cambiare il paradigma. Siamo in un ritardo paradigmatico – conclude il professore -. I media devono imparare ad allearsi con i cittadini”.
La novità è che i nuovi media ci danno una grande opportunità: quella di coinvolgere le persone e di farlo in modo diverso.
Come comunicatore e fundraiser sono consapevole che vi sia bisogno di altro e forse anche di una battuta di arresto. Occorre pensare seriamente e attentamente a come stiamo comunicando i nostri progetti di missione.
Abbiamo il dovere di comunicare bene il bene e abbiamo il dovere, sacrosanto, di essere ragionevoli.
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