Colonia, Schengen, bail-in … l’Europa appare sempre più in crisi. La crisi dei migranti è forse la peggiore minaccia al processo di integrazione europea. Ma anche l’entrata in vigore delle nuove regole sui fallimenti bancari, con il famigerato bail-in, rischia di dare un bel contributo alla dissoluzione dell’idea di un graduale cammino al termine del quale l’attuale sgangherata confederazione sfocerà in una federazione di Stati. Quello che colpisce non è solo l’inettitudine della classe dirigente europea ma anche la sempre più evidente incapacità delle elite della globalizzazione di capire cosa sta succedendo. Ed è preoccupante, perché significa che a Bruxelles, nelle Cancellerie o nei CdA delle grandi aziende non hanno la minima idea di come affrontare i problemi e risolverli. E questo mette a rischio le conquiste dell’Europa.
Prendiamo il caso dei migranti. Abbiamo dovuto ascoltare per mesi la storiella che l’afflusso massiccio di milioni di migranti avrebbe risolto i problemi di crescita e di invecchiamento dell’Europa. Fino a quando a dirlo è qualche economista universitario, magari anche con un Premio Nobel appeso alla parete, può anche andare bene. Potremmo considerarla una specie di provocazione intellettuale rispetto alla quale confrontarsi prima di definire l’azione politica. I modelli che applicano gli economisti moderni sono dei giocattolini matematici che servono solo per le pubblicazioni accademiche. C’è una bella funzione di produzione, con capitale e lavoro come input. Basta aumentare uno dei due fattori di produzione, in questo caso il lavoro, e aumenta il PIL. In questi modelli non c’è spazio per i mercati finanziari, figuriamoci se viene modellata la complessità dell’interazione sociale e dell’integrazione culturale. Il problema è quando la tecnocrazia e la politica ci credono. Una posizione tra l’altro comoda: se un fenomeno è “buono”, perché agire?
E’, invece, evidente a qualunque persona di buon senso che ci sono limiti alla capacità di assorbimento. Non si tratta di limiti geografici o di limiti alle risorse di prima accoglienza: con un decimo del nostro guardaroba e tutto il cibo che sprechiamo potremmo vestire e dar da mangiare a milioni di migranti. E il Continente europeo è sufficientemente esteso per accoglierli tutti. Il problema è l’integrazione, cioè le risorse necessarie per l’accoglienza di lungo periodo. Perché i migranti non vogliono vivere in un centro di accoglienza o dispersi nelle campagne. Sono esseri sociali come noi e come noi vogliono stare insieme e vivere tra di loro e con noi. Non vogliono vivere di carità o lavorare per un tozzo di pane, ma hanno aspettative. Aspettative forse inizialmente basse, ma che poi giustamente si alzano e diventano uguali a quelle degli autoctoni al più tardi alla seconda generazione.
Le risorse di natura economica, sociale e culturale assorbite da un processo di integrazione sono tanto maggiori quanto più è concentrato l’afflusso nel tempo e quanto più distanti sono le radici culturali dei migranti rispetto alla popolazione di accoglienza. In questo l’Europa non ha una propria specificità e sicuramente non è più ricca di un paese-continente come gli Stati Uniti, dove invece l’immigrazione è oggetto di Politiche con la P maiuscola. Il milione di rifugiati arrivati in Germania nel 2015 sarebbero un problema enorme anche se fossero tutte coppie di ingegneri elettronici, giovani e felicemente sposati con due figli.
Le critiche pesantissime della Commissione europea nei confronti della Grecia per la salvaguardia dei confini esterni della UE sono un tipico esempio di schizofrenia europea. Si chiede alla Grecia (e all’Italia) di presidiare i confini esterni della UE, ma non si ha il coraggio di specificare che questo significa lasciare morire i migranti in mare, rifiutando l’approdo o il salvataggio.
Personalmente, ritengo sbagliato sia l’approccio di Orban sia la retorica del mondo senza confini. Ma la retorica del mondo senza confini è forse ancora più pericolosa del muro di Orban. Basti pensare che non sono passati neanche tre mesi dall’invito ad andare tutti in Germania a lavorare alla Mercedes (ricordate il discorso che fece il Presidente della nota casa automobilistica dopo l’apertura della Merkel?) e sta crollando la maggiore conquista dell’Europa del secondo dopoguerra, l’accordo di Schengen. L’Italia stessa, impegnata da anni in una azione umanitaria che ha pochi precedenti nella storioa, ha subito una procedura d’infrazione! Cosa succederà nei prossimi mesi, quando si scoprirà che non è poi così facile impiegare migliaia di migranti cresciuti in Siria, Afghanistan, … nella possente macchina produttiva europea? Di fronte ai fatti di Colonia, le banlieu parigine o le periferie romane rischiano di diventare un esempio di perfetta integrazione etnica.
Per affrontare il problema bisogna pertanto rivolgersi altrove. Non agli economisti accademici o ai tecno-burocrati di Bruxelles che pensano di risolvere le cose prendendo le impronte a milioni di persone in giro per il Continente. Dobbiamo ascoltare chi sa che cosa è una comunità e come si costruisce, chi sa cosa sia la povertà e la cooperazione sociale, chi ha percorso le strade dell’Europa e del Terzo Mondo. Continuo a ritenere che l’unica possibilità per vincere questa sfida sia quella di affrontare il problema della migrazione alla radice e quindi investendo risorse vere là dove inizia il viaggio, come suggerì in tempi non sospetti Johnny Dotti proprio sulle pagine di Vita. E non si tratta di pagare la Turchia per non fare arrivare i profughi. Continuare a non guardare in faccia i problemi e ignorare la sfida che i numeri pongono rischia di rivelarsi fatale per l’Europa.
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