Mondo
Colmegna: «Non consumiamo la parola pace nella retorica»
Dobbiamo diventare artigiani di pace capaci di rendere il mondo in cui siamo pieno di tracce che devono incidere sulla coscienza popolare , sul moltiplicare e condividere i segni di speranza. La 7° beatitudine, operatori di pace, chiede di entrare nel cuore anche dei nostri desideri, di promuovere spazi di fraternità e riconciliazione
La parola PACE non può essere parola consumata dalla retorica senza consegnarci quello spirito di cultura, di cambiamento profondo del nostro vivere come presenza promotrice nella società civile.
Carlo Maria Martini alla vigilia di S. Ambrogio nel 2001 rifletteva dopo il dramma delle torri gemelle evidenziando la necessità di una presa di coscienza profonda di come le cause del male stiano dentro il cuore, nella storia di ogni persona, di ogni gruppo, nazione, istituzione che è connivente con l’ingiustizia, rifiutando questa connivenza. Richiamandosi a Lc 13, 1-5 rilevava come Gesù rimandi sempre alla radice profonda di tutti questi mali e ci invitava a guardarci dentro per cambiare, rifiutare, tutti quei segni della nostra complicità con l’ingiustizia diffusa.
Ancora nel 2003 da Gerusalemme scrive una riflessione sulla pace mettendoci in guardia dalla compiacenza che si ha di fronte all’aggressività richiamandoci ad una conversione del cuore che va educato, liberato dall’aggressività, dal rancore, dall’odio, e ci sollecitava a non allontanarci dalla Bibbia, il suo Vangelo di pace, come grande libro educativo dell’umanità, come urgenza di una trasformazione radicale dell’interiorità di ciascuno, ma soprattutto della comunità cristiana. E’ necessario allora cambiare il cuore; se si guarda al paziente cammino dello spirito nella logica delle Beatitudine, quelle proclamate da Gesù sul Tabor, si vede che Gesù evangelizza la pace e le Beatitudini sono il suo testo di riferimento.
Allora non cediamo ad una retorica tanto razionale che finisce poi di accettare la guerra come necessità storica, diventiamo invece, come dice papa Francesco, artigiani di pace capaci di rendere il mondo in cui siamo pieno di tracce che devono incidere sulla coscienza popolare , sul moltiplicare e condividere i segni di speranza. La pace, ricordava ancora Martini, ha un costo: chiede di rinunciare a qualcosa a cui si avrebbe diritto, non solo a livello personale, ma anche a livello di gruppo, di popolo, di nazione ‘non ci si può rassegnare a guardare il mondo assetato di sangue’. La 7° beatitudine, operatori di pace, chiede di entrare nel cuore anche dei nostri desideri, di promuovere spazi di fraternità e riconciliazione. Far crescere quel sentimento di fratellanza, quel messaggio di pace e fraternità che poche settimane fa’ sul sagrato di S. Pietro si è proclamato insieme ai premi Nobel. Bisogna ripartire da questa visione di futuro e liberarci dall’ovvietà, di una politica che ci consegna indebolendola la profezia di spiritualità: abbiamo proprio bisogno di cambiare il linguaggio per incidere nella cultura, con un profondo riferimento alla preghiera, su cui insiste papa Francesco, quel nutrirsi di stare nel mezzo come ci richiedeva quella preghiera di intercessione che sa spostare i confini ponendo la pace nel mezzo. Così pregava in Duomo Carlo Maria Martini per invocare e per allontanare il dramma della guerra che poi ha cominciato a dilaniare, sempre di più, il mondo in cui siamo. E allora dobbiamo avvertire quel bisogno di una spiritualità di pace contrastando l’indifferenza, l’abitudine alla necessità della guerra che diffonde anche un linguaggio che si educa anche nella guerra, negli armamenti, nella costruzione di armi sempre più sofisticate, nell’utilizzo addirittura dell’intelligenza artificiale per produrre difesa, la minaccia nucleare…si diffonde un linguaggio che si rassegna ad accettare i cosiddetti effetti collaterali.
Ripensiamo al primo viaggio di Papa Francesco a Lampedusa, quel lasciateci piangere, quella commozione che impone di non essere soltanto osservatori distaccati: penso alle vittime dell’ultimo naufragio, quella strage degli innocenti nel Mediterraneo, ormai diventato un cimitero. Questa crisi profonda di civiltà, che non sa dialogare con la richiesta di una nuova visione di fraternità e giustizia, deve essere sempre di più economia di riconciliazione, di pace, di fraternità: dobbiamo essere scandalizzati dall’indifferenza, dall’accettazione di queste morti innocenti, da un’economia che per crescere ha bisogno della guerra, della minaccia, della vittoria contro il nemico, che propaganda il potere dell’individuo, dell’individualismo, del paradigma tecnocratico che è centrato sull’io, sulla devastazione del potere, dell’ingiustizia di una civiltà che cerca sempre di gestire con la logica quantitativa della guerra, ridisegnando confini diversi.
La cultura di pace non può diventare un commento semplicemente ai disastri che sembrano una necessità storica che non si può fermare: sempre di più si svuota la politica di eticità e la si consegna al potere della forza, a quella separazione tra privato e pubblico che fa teatrino di fronte alla morte, che immette consolazione come sentimento estraneo alla intensità del dolore, che non può essere reso atteggiamento superficiale, che poi si dimentica voltando pagina e consumandosi negli affari.
Sì, Papa Francesco ci chiede non di imprigionare la parola PACE, ma di liberarla dal profondo del cuore come spiritualità che cambia con una visione che si fa profezia, stile di vita, conversione del cuore.
Sì bisogna stare nel mezzo, condividendo una visione del mondo e di una economia capace inondare pace, fraternità, perdono, misericordia, riconciliazione, legami generati da una vita vissuta con questo stile di vita profetico, impregnato di generosità che non è giustificazione per la rassegnata impotenza di fronte all’esplodere della guerra e della distruzione, ma azione che trascina e feconda la parola pace., ovvero LA FOLLIA DELLE BEATITUDINI EVANGELICHE.
Ancora Martini nel 2002 dice: “La pace ha necessariamente un costo, bisogna essere disposti a pagare un prezzo, a rinunciare a qualcosa a cui si avrebbe pure diritto”. Sì ad una pace giusta, ma in questa giustizia bisogna metterci una tensione interiore, una educazione ad essere evangelizzati dalla pace, non dobbiamo aver paura di dirlo non dobbiamo rinchiuderlo in una spiritualità di natura intimista, non pubblica perchè allora diventa solo retorica della pace, si fa egemonia che non scalfisce la domanda di cambiamento e di gesti coraggiosi, bisogna invece riprendere la diplomazia di pace, il dialogo di pace, il dialogo come formula unica per ricostruire tessuti di fraternità. La pace sembrerebbe essere messa nell’angolo come priva di futuro almeno temporaneo: questa sospensione non la possiamo accettare altrimenti la guerra diventerebbe produttrice di necessità storiche, diventerebbe economia di guerra. Lo è già pensando al moltiplicarsi alle distruzioni in cui investire, un’economia di ricostruzione come mercato economico: per questo la pace è profezia evangelica, è spiritualità di comunione e di fraternità. Diventa sempre più urgente una spiritualità che generi presenze di comunità nella storia che viviamo, nella fraternità che entra nel cuore della storia. So benissimo che non possiamo correre il rischio di seminare al vento queste riflessioni, questi appelli. Per questo dobbiamo interiorizzarli e farli diventare anche esperienza di vita, stili di vita alla condizione però che nella spiritualità, nella coscienza che sgorga dal cuore ci sia l’intransigenza operosa che promuove cultura di gesti di riconciliazione, di perdono, di giustizia riconciliatrice, riparativa.
Dobbiamo stare nel mezzo di una società civile che semina fiducia e consapevolezza – visto anche il cammino nostro di operatori di pace di reti di carità- essere fondatori di una spiritualità di pace che è profezia, è dialogo e presa di coscienza. Non si può più accettare quanto sta avvenendo: a noi rimane il silenzio interiore, la preghiera come capacità di incidere sui processi di consapevolezza, di appartenenza, di indignazione. Abbiamo bisogno che diventi sempre un’alternativa all’accettazione dell’ingiustizia , una qualità di vita che sia conversione ecologica, economia di fraternità e di comunione in questo deserto di valori, in questa etica frantumata, fatta dall’onnipotenza dell’Io.
Vi sta invece una cultura del noi, della fraternità: il mondo ha bisogno di testimoni più che di maestri, capaci di essere orientatori di principi etici, come ci richiamava Paolo VI, immersi in una spiritualità colma di silenzio, di condivisione povera, di stili di vita poveri… un’esigenza sempre più necessaria . Laudato sì , Fratelli tutti sono un’invocazione di fraternità per non cedere al richiamo verso un’etica astratta, che rende la religione utile socialmente per il desiderio di un ordine sociale; c’è bisogno invece di una di essere intransigenti anche sul tema della non violenza, richiamandosi a quella obiezione che è possibile come ci ha insegnato don Milani, la vera spiritualità di pace.
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.