Guardo sempre con sospetto ai fenomeni che vengono sbandierati come conquiste, nuove frontiere nella libertà delle donne. Così mi è accaduto, questa settimana, per la notizia riguardante l’attribuzione del cognome della madre ai figli.
Dopo la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che ha stabilito come l’Italia debba adeguarsi a un quadro di libertà di scelta, il 10 gennaio il Consiglio dei Ministri ha immediatamente predisposto un disegno di legge in cui sarà previsto “l’obbligo per l’ufficiale di stato civile dell’iscrizione all’atto di nascita del cognome materno in caso di accordo tra entrambi genitori”.
Non poteva mancare una retorica trionfalistica, da parte di molti giornali, sull’abbandono di un “odioso retaggio patriarcale” a favore di una piena affermazione del ruolo femminile.
In realtà, più che una faccenda di patriarcato, l’attribuzione del cognome da parte del padre mi è sempre parsa una questione antropologica di buon senso.
Mi spiego: il figlio nasce dal corpo della madre, è naturalmente parte della sua famiglia (avete presente come sono onnipotenti, per dire, le nonne materne?). Così quando il padre “se lo chiama”, cioè gli attribuisce il proprio cognome, compie un riconoscimento che esce dalla sfera affettiva privata per diventare scelta pubblica, solenne, con cui si assume anche una precisa responsabilità nei confronti del bambino.
Come cambierà il ruolo di quel padre, nei casi in cui la madre pretenderà l’esclusività del cognome? Come cambierà in un’epoca sempre più definita dai padri “pallidi”, periferici nell’educazione e nella vita dei figli? Non sarà un po’ come la scelta di tante coppie che, in procinto di sposarsi, optano per la separazione dei beni “per evitare problemi” in caso di divorzio?
Mi è venuto da chiederlo a Costanza Marzotto, docente all’Università Cattolica, mediatrice familiare e collaboratrice del Centro studi e ricerche sulla famiglia dell’Ateneo milanese. “Sicuramente trovo più equilibrata l’ipotesi del doppio cognome, così come avviene in Spagna”, premette. “E’ importante ricordare ai figli che sono stati generati da un atto d’amore che ha coinvolto due persone, e che fanno parte di due stirpi. La doppia appartenenza è sempre un valore, una ricchezza”.
Nel caso di separazione, dunque, l’attribuzione del solo cognome materno non potrebbe rappresentare, invece che un vessillo di libertà, un indebolimento nella posizione della donna e dei figli? Non rischia di rendere più difficile il richiamo alle responsabilità dei padri?
“E’ uno scenario senz’altro possibile”, conferma Marzotto. “Di certo, all’interno di un matrimonio trovo insolita la scelta del solo cognome materno, a meno che la stirpe della madre non sia particolarmente forte e in qualche modo sovrastante. Oppure, può prefigurarsi all’interno di coppie miste, quando la madre desidera preservare il proprio retaggio socio-culturale. Ma l’esclusione della stirpe paterna mi pare comunque una perdita, l’esclusione di uno spazio per la diversità”.
Questa non è affatto un’epoca di patriarcato, prosegue la docente. “Tutt’altro: nei fatti il matriarcato oggi è dominante. La celebre psicoanalista Francoise Dolto non a caso parlava di figli che sono di “appannaggio materno”.
La questione del cognome, pertanto, diventa delicatissima quando la coppia si separa e, paradossalmente, è proprio la conservazione della “radice paterna” a essere più a rischio. “In caso di separazioni fortemente conflittuali si assiste all’esclusione della stirpe paterna da parte di madri fortemente espulsive. Oppure, il cognome del padre viene di fatto già perso all’interno di molte famiglie ricostituite, quando c’è un nuovo partner e quando arrivano fratelli da seconde nozze, e inevitabilmente sparisce dal campanello di casa e a volte anche dai quaderni di scuola”.
L’antidoto a queste situazioni? “E’ il saper coltivare, nei figli, l’orgoglio per il nome e per l’appartenenza a entrambe le stirpi. Non si sta in piedi senza due radici”.
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