Non profit
Co-progettazione, la sponda della Consulta
La Corte Costituzionale nel caso che riguardava una legge della Regione Umbria stabilisce che il rapporto che si instaura tra i soggetti pubblici e gli ETS è alternativo a quello del profitto e del mercato: la «co-programmazione», la «co-progettazione» e il «partenariato» si configurano come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico
di Luca Gori
La Corte costituzionale si è pronunciata sull’inquadramento costituzionale di coprogrammazione, coprogettazione e accreditamento. E lo ha fatto con parole nettissime che andranno “pesate” una ad una, con la sentenza n. 131 del 2020, redattore il giudice Antonini.
Il caso riguardava una legge della Regione Umbria (L.R. 2/2019). Tale legge nel riconoscere e disciplinare le cooperative di comunità, prevedeva, tra l’altro, che la Regione, «riconoscendo il rilevante valore sociale e la finalità pubblica della cooperazione in generale e delle cooperative di comunità in particolare» disciplinasse «le modalità di attuazione della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento previste dall’articolo 55 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106) (…)». Il Governo aveva impugnato la legge sostenendo che una siffatta formulazione non rispettasse il Codice del Terzo settore, nella parte in cui finiva per ammettere a co-programmazione, co-progettazione e accreditamento anche cooperative di comunità non in possesso della qualifica di ente del Terzo settore. La Corte ha risolto la questione in via interpretativa, affermando che gli istituti dell’art. 55 del Codice del Terzo settore, richiamati dalla legge regionale, non possano trovare applicazione qualora le cooperative di comunità non siano anche in possesso della qualifica di ETS.
Ma la “svolta” è nella motivazione. È lì che si individua la legittimazione più generale degli enti del Terzo settore nell’ordinamento costituzionale e, quindi, l’esigenza di un “nuovo” diritto del Terzo settore che esige, sul piano dei rapporti con la P.A., nuovi istituti e nuove regole.
La sentenza, infatti, parte dalla constatazione che l’art. 55 CTS costituisce una possibile del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale (art. 118, u.c. Cost.): la disposizione «realizza per la prima volta in termini generali una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria – strutturando e ampliando una prospettiva che era già stata prefigurata, ma limitatamente a interventi innovativi e sperimentali in ambito sociale (…)». Quindi, l’art. 55 amplia la possibilità di ricorrere a quegli strumenti previsti già in passato, rifuggendo da una lettura limitativa – che pure si era affermata – per la quale esso avrebbe dovuto essere letto con lo sguardo rivolto al “passato” (l’art. 55 come norme riepilogativa di quanto già previsto da altre fonti secondarie, posizione difficilmente accettabile).
E prosegue spiegando perché gli ETS sono meritevoli di essere “coinvolti attivamente” in queste forme. Si legge che «gli ETS sono identificati dal CTS come un insieme limitato di soggetti giuridici dotati di caratteri specifici (art. 4), rivolti a «perseguire il bene comune» (art. 1), a svolgere «attività di interesse generale» (art. 5), senza perseguire finalità lucrative soggettive (art. 8), sottoposti a un sistema pubblicistico di registrazione (art. 11) e a rigorosi controlli (articoli da 90 a 97). Tali elementi sono quindi valorizzati come la chiave di volta di un nuovo rapporto collaborativo con i soggetti pubblici (…). Gli ETS, in quanto rappresentativi della “società solidale”, del resto, spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della “società del bisogno”».
Accolte queste premesse – che sono estremamente significative e gravide di conseguenze, su una pluralità di piani: probabilmente, la più completa lettura da parte del Giudice costituzionale del principio di sussidiarietà orizzontale dopo la riforma del Titolo V Cost. – la conclusione cui si giunge è consequenziale, sul piano giuridico-costituzionale: il rapporto che si instaura tra i soggetti pubblici e gli ETS, in forza dell’art. 55, definito esplicitamente un caso di «amministrazione condivisa» (con un termine oramai entrato nei manuali di diritto amministrativo!), è «alternativo a quello del profitto e del mercato: la «co-programmazione», la «co-progettazione» e il «partenariato» (che può condurre anche a forme di «accreditamento») si configurano come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico». Si tratta di un modello che si fonda «sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico».
Ed i timori di conflittualità con il diritto dell’Unione europea, tema sul quale si è generato un dibattito vivacissimo? La Corte utilizza parole assai chiare, anche a questo proposito. Si legge che è lo «stesso diritto dell’Unione che mantiene, a ben vedere, in capo agli Stati membri la possibilità di apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà (sempre che le organizzazioni non lucrative contribuiscano, in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente al perseguimento delle finalità sociali)».
Ecco, a questo punto il campo “giuridico” sembra sgombrato da molti dei possibili equivoci, grazie ad un intervento del giudice costituzionale. Ci si attendeva una risoluzione della questione attraverso le linee guida ANAC, poi fermate dal Consiglio di Stato; altri aspettavano una norma di diritto positivo; si intravvedevano possibili spiragli nella giurisprudenza amministrativa. La risposta, invece, è venuta da un contenzioso Stato-Regioni, approdato sul banco della Corte costituzionale che si è espressa con limpidezza, ci pare.
Questa sentenza, però, esige responsabilità. Responsabilità da parte di chi, sul piano normativo ed amministrativo, è chiamato a darne una coerente lettura, attraverso la definizione di procedimenti adeguati alla sfida posta: legislatore statale, regionale, amministrazioni locali; responsabilità da parte del Terzo settore, chiamato, attraverso questi strumenti, ad essere il protagonista di quelle «forme di solidarietà» ricomprese «tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente», senza scorciatoie, ma con un lavoro attento, appassionato e competente di “ricucitura” fra pubblici poteri e società civile attraverso le potenzialità espresse da questi istituti.
*Centro di ricerca Maria Eletta Martini – Scuola Superiore Sant’Anna.
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