Formazione
Classi “fuori” La scuola italiana a Il Cairo
600 studenti che faranno gli ingegneri in Italia
di Redazione
Sono appena arrivata a Il Cairo, dove anche quest’anno insegno italiano presso l’istituto tecnico-professionale Don Bosco. Il primo giorno di scuola, il 5 settembre, ha coinciso con la ripresa del processo a Mubarak: si prospetta un autunno caldo anche politicamente, con l’incognita delle elezioni parlamentari e presidenziali.
Il mio punto di osservazione è un quartiere popolare nel cuore della capitale, dove ogni giorno circa 600 studenti si ritrovano alle 7.45 per affrontare 8 ore di lezione in una lingua, l’italiano, che imparano da zero. Ogni giorno entro in un’aula dove porte e finestre sono costantemente spalancate per via del clima, e dove i rumori assordanti di una città caotica impediscono di sentirsi soli anche per un momento. Nel mio registro, tanti Muhammad e Abanoub, rispettivamente tra i nomi musulmani e cristiani più diffusi in Egitto. Il nome è a volte l’unico criterio per riconoscere la religione dei miei studenti, che si separano solo nell’ora di religione. Qui nascono belle amicizie tra cristiani e musulmani, come quella tra gli inseparabili Abanoub e Fadi, che l’anno scorso frequentavano il terzo anno dell’indirizzo professionale e si stavano preparando all’esame di qualifica e al tanto sognato viaggio in Italia.
Il primo sabato di maggio Abanoub, dopo essere rincasato da scuola nel quartiere di Imbaba, ha sentito che la sua chiesa era stata attaccata ed è andato per difenderla; una pallottola mortale in fronte ha troncato i suoi progetti. Un’esperienza tragica, che è stata vissuta con grande dolore e partecipazione. Ma i ragazzi egiziani non possono permettersi il lusso di crogiolarsi in una sofferenza: fin da bambini vengono abituati dalle sferzate della vita ad essere piccoli uomini. Per loro è ancora di moda lo spirito di sacrificio. C’è chi si alza alle quattro e mezza ogni mattina per raggiungere la scuola, e chi dopo le lezioni si arrangia con qualche lavoretto (tanti gli orfani di padre che sono il punto di riferimento economico del loro nucleo familiare). Capita spesso allora che uno studente si addormenti con la testa sul banco, come leggevo – mi ricordo – nel libro Cuore. A dire la verità, qualcuno dorme in classe perché passa la notte su Facebook, la grande finestra da cui i nostri ragazzi, che vivono in una società molto rigida, si affacciano curiosamente all’esterno e interagiscono con i coetanei del mondo globalizzato, soprattutto con ragazzi e ragazze italiani.
Riuscire a entrare alla Don Bosco è la carta per lasciarsi alle spalle il sistema scolastico pubblico egiziano, in cui le classi contano anche più di 50 studenti e l’insegnamento si basa sulla memorizzazione. Qui si impara una lingua, e si acquisiscono capacità tecniche e professionali con cui tentare un riscatto economico e sociale e, soprattutto, si alimenta la speranza in una via di fuga da una quotidianità fatta di povertà, tensioni, paure, mancanza di sicurezza: significa sognare in grande senza fermarsi a calcolare se si abbiano i mezzi per realizzare i propri desideri, il più ricorrente dei quali è iscriversi alla facoltà di Ingegneria in Italia. Un giorno Basem, un mio studente quindicenne, mi ha chiesto: «Prof, perché lei è qui?». Gli ho fatto i complimenti per la domanda, a cui sul momento non sono stata in grado di rispondere. Ci provo ora. «Caro Basem, torno ancora in Egitto perché lavorare alla Don Bosco sta coniugando la mia professione di insegnante – precaria! – con la mia passione per la lingua araba; perché l’esperienza dello scorso anno scolastico, in cui non sono mancati giorni drammatici, mi ha straordinariamente fortificato; perché, dopo aver dato le parole della mia lingua madre, le ho viste restituire fiorite della freschezza di una generazione di adolescenti che sa ancora lottare e sognare, nonostante tutto».
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