Cultura

cinque sagge ragioni per fare una moschea a Milano

La polemica che divide il capoluogo lombardo

di Paolo Branca

Quella musulmana è ormai una presenza stabile, fatta
di famiglie e di seconde generazioni. È ora di smettere di considerarli soltanto come forza lavoro All’inizio d’ottobre dello scorso anno ero stato invitato da Aldo Brandirali per un’audizione presso due commissioni comunali sul tema delle moschee a Milano. In quell’occasione avevo lamentato la lentezza con cui il tema è stato affrontato. Da parte delle istituzioni c’è un atteggiamento passivo che si limita a reagire di fronte alle questioni piuttosto che a gestirle in forma propositiva. In questo modo si induce negli interessati la sensazione che qualsiasi iniziativa possa essere messa in atto senza preoccuparsi che sia o meno ammissibile: intanto per molti anni nessuno interverrà seriamente, in attesa di qualche provvedimento di sanatoria e favorendo in definitiva un clima di polemica che col tempo si complica generando confusione e smarrimento. Condizioni ideali per alcuni scaltri che sanno approfittarne, ma che possono invece indurre molti altri – e forse i migliori – a tenersi lontano da ribalte mediatiche e situazioni conflittuali.

700mila non moschee
L’immigrazione dei musulmani ha subìto una radicale trasformazione negli ultimi anni: da maschi adulti soli e temporaneamente presenti si è passati, coi ricongiungimenti familiari, a una presenza stabile che sta vedendo anche la crescita di una seconda e una terza generazione; in questo caso non si tratta più di immigrati ma dei loro figli che sono nati qui e si sentono italiani. È del tutto naturale che queste comunità abbiano i loro centri di aggregazione anche a carattere religioso: non possiamo considerarli solo forza-lavoro, ma anche portatori di tradizioni e valori etici e sociali. Il fatto che non coincidano con quelli degli italiani non significa che siano in contrasto. Francamente non riesco a capire la posizione di quanti sono contrari del tutto e per principio all’esistenza di centri islamici e moschee. Il loro no teoricamente intransigente non ha potuto comunque impedire che sorgessero circa 700 centri di aggregazione e di preghiera in Italia, che tuttavia hanno caratteristiche spesso preoccupanti da vari punti di vista: si tratta principalmente di garage, magazzini, seminterrati? con precarie condizioni igieniche e di sicurezza per gli utenti. Inoltre, la loro inadeguatezza produce spesso disagio nella zona a causa del numero eccessivo di fedeli che, non riuscendo a trovare spazio nei locali, invadono marciapiedi e aree pubbliche circostanti.
Tali caratteristiche favoriscono la frequentazione di questi spazi da parte delle componenti più precarie e marginalizzate della comunità islamica, facili prede di guide improvvisate, che non di rado utilizzano questi luoghi come valvola di sfogo rispetto a situazioni socio-politiche del tutto bloccate nei Paesi d’origine.

Credere di più in noi
Di fronte a tale situazione, una politica tendenzialmente punitiva e discriminante non fa che rafforzare sentimenti di estraneità, a tutto favore delle componenti meno nobili delle comunità. E fomentando nella nostra società sentimenti di diffidenza e di disprezzo che non sarà facile esorcizzare. Avevo poi messo in guardia verso impostazioni basate sull’eccezionalità: eccezionalità dell’islam rispetto a tutte le altre religioni, come se si avesse a che fare con una razza di alieni che potranno al massimo essere sopportati ma mai realmente integrati. Dimostrando così di aver ben scarsa fiducia nel nostro sistema e fingendo d’ignorare che la realtà sta cambiando e non si ferma certo ad attendere le nostre pigrizie e la nostra inerzia. Il rischio è quello di non cogliere delle opportunità che potrebbero non ripresentarsi e di non valorizzare l’eccezionalità dell’Italia rispetto agli altri Paesi occidentali: quasi che la nostra tradizione culturale, religiosa e civile debba essere messa sotto tutela. Invece il confronto con gli altri – se adeguatamente gestito – è un’ineguagliabile risorsa anche per riconquistare una consapevolezza di sé che non sarà certamente salvaguardata da una protettiva campana di vetro.
Non pretendo certo di aver prospettato soluzioni miracolistiche, ma constato che a un anno di distanza nulla è cambiato e forse si sono addirittura fatti passi indietro: farneticare di un’intesa con lo Stato o di un referendum tra i cittadini significa ignorare che la Costituzione riconosce la libertà di culto come diritto inalienabile e incondizionato. Dire che le sagge esortazioni del cardinale Tettamanzi non si rivolgevano al ministero degli Interni appare bizzarro, visto che esso ha istituito un apposito Comitato per l’islam italiano? Il sospetto è che qualcuno metta le mani avanti per evitare nuove diatribe all’interno di una classe politica litigiosa e indecisa a tutto.

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