Politica

Cinque ragioni per approvare subito lo ius scholae

Modificare la legge sulla cittadinanza, riconoscendola ai ragazzi che hanno compiuto in Italia un intero ciclo di studi. Se ne parla da anni, ma non si è mai riusciti ad approvarla. Ecco le cinque ragioni per cui non possiamo lasciare che questo sia solo uno stanco dibattito di fine estate. Per 900mila ragazzini, ma anche per noi

di Sara De Carli

C’è chi è stato insignito del titolo di Alfiere della Repubblica e indicato dal Presidente della Repubblica come “modello di buon cittadino”, ma cittadino italiano nemmeno lo è. Il più famoso è Bernard Dika, nominato alfiere nel 2016 e oggi portavoce del Presidente della Regione Toscana: «Ho vissuto per 17 anni in questo Paese senza essere riconosciuto come cittadino italiano. Periodicamente dovevo assentarmi da scuola per andare a far la fila all’Ufficio immigrazione per rinnovare il permesso di soggiorno. Io me ne vergognavo e dicevo bugie ai compagni e agli insegnanti, raccontavo per esempio di avere una visita medica», confidava in un’intervista. Basta questo flash per dire quanto sia paradossale l’idea di continuare ostinatemente a negare la cittadinanza italiana centinaia di migliaia di ragazzi che in Italia sono nati o sono arrivati da bambini, frequentando per anni la nostra scuola. Ricordando peraltro che dei 914.860 alunni con cittadinanza non italiana iscritti nelle nostre scuole, ben 598.745 (il 65,4%) sono nati in Italia.

Realismo, non ideologia

Sarebbe falso e retorico affermare che questi ragazzi sono tutti cittadini modello: ciò però vale anche per gli italiani e a nessuno viene in mente l’idea di togliere la cittadinanza a chicchessia per questo. Sarebbe falso e retorico affermare che questi ragazzi sono uguali in tutto ai loro coetanei che la cittadinanza italiana ce l’hanno, tranne che nei diritti: vorrebbe dire cancellare le differenze e (paradossalmente) negare che i percorsi di integrazione necessitano di cura, risorse, investimento. Non è così, ma le differenze non possono diventare disuguaglianze legittimate. La cittadinanza significa garantire a ciascuna persona la possibilità di essere quello che è, con le diversità che ognuno ha, ma senza che la diversità generi disuguaglianza: avere pienezza della cittadinanza e dei diritti fa vivere tutti da uguali, nella diversità.

Sappiamo per esempio che i tassi di abbandono scolastico precoce sono più alti fra gli alunni con cittadinanza non italiana (35% vs 11% degli italiani nel 2020, ultimo dato Elet) e che tra i 17 e i 18 anni, quindi appena assolto l’obbligo, più di un quarto degli studenti con cittadinanza non italiana abbandonano la scuola. Sappiamo che le bocciature sono più frequenti (alle superiori la percentuale di studenti stranieri in ritardo è del 48% contro il 16% degli alunni italiani). Sappiamo che per 100 studenti con cittadinanza non italiana che sono entrati in prima media nel settembre 2012, il 40% di essi nove anni dopo non è arrivato in quinta superiore, contro il 13,7% degli italiani (con una differenza considerevole tuttavia tra fra gli alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia e chi è nato all’estero: dei primi ne perdiamo il 34,3%, dei secondi il 44,1%).

Ma sappiamo anche che, a dispetto delle narrazioni, sui 31.173  minori denunciati e/o arrestati nel 2023, gli stranieri sono 16.022 e gli italiani 15.151 (dati del report “Criminalità minorile e gang giovanili” realizzato dalla Polizia criminale), mentre i report di Invalsi – passati su questo punto completamente sotto silenzio – mostrano che il percorso scolastico funziona tanto che la dispersione implicita (ossia gli studenti che giungono alla fine del percorso scolastico senza aver acquisito le competenze fondamentali previste) tra i ragazzi con cittadinanza non italiana è inferiore rispetto ai compagni italiani (5,5%), sia tra chi è immigrato di seconda generazione (4%) sia tra chi è arrivato in Italia come immigrato di prima generazione (5,3%). «Questa tendenza, potrebbe essere dovuta al fatto che per studenti e studentesse con background migratorio c’è sì una maggiore probabilità di abbandono scolastico ma, al tempo stesso, coloro che restano in un percorso di istruzione e riescono ad ottenere il diploma dimostrano di possedere una maggiore motivazione e una più forte resilienza», annota Invalsi nel report.

Ius scholae e percorsi di integrazione: et-et, non aut-aut

L’approvazione dello ius scholae, proposta lanciata e subito ritrattata nei giorni scorsi da Antonio Tajani, nei programmi del 2022 l’avevano in effetti solo Pd e M5s. L’alleanza di centro destra prevedeva quel che il ministro Valditara sta facendo, ovvero «nuove misure a garanzia del diritto allo studio dei minori con cittadinanza non italiana, in modo che gli venga consentito di portare a termine almeno il percorso d’istruzione obbligatorio, con l’introduzione di ore aggiuntive per l’insegnamento dell’italiano, complementari al programma di lezioni ordinario».

La concretizzazione di quel punto è avvenuta a fine luglio con la legge 106 di conversione in legge del decreto legge 71, anche se i nuovi insegnanti di italiano L2 arriveranno a scuola solo dall’anno scolastico 2025/2026 e secondo Tuttoscuola raggiungeranno appena 10mila alunni nati all’estero e entrati in classe come studenti NAI (alunni neoarrivati) sui 163mila che siedono tra i nostri banchi, che significa appena il 6%: un po’ poco, per pensare che la misura – pur giusta e doverosa – sia risolutiva.  Ius scholae e investimenti sui percorsi di integrazione attraverso la scuola con tutta evidenza non sono due opzioni in contraddizione, anzi.

I numeri

Nell’anno scolastico 2022/23, gli alunni con cittadinanza non italiana iscritti alle nostre scuole sono 914.860, pari all’11,2% degli studenti. I potenziali beneficiari dello ius scholae – immaginando che richieda di aver concluso l’intero primo ciclo del sistema di istruzione italiano, ossia fino alla terza media – secondo Tuttoscuola sarebbero circa 560mila, di cui oltre 300mila nel primo anno di applicazione e i restanti nei successivi quattro anni. Significa che sei ragazzi stranieri sui 10 che attualmente studiano nelle nostre aule scolastiche in questo modo otterrebbero la cittadinanza italiana. L’effetto sarebbe molto diverso sul territorio nazionale: 5 potenziali nuovi cittadini italiani su 6 vivono al centro e, soprattutto, al nord. Meno del 15% vive nel meridione.

Perché lo ius scholae è un passo che dobbiamo deciderci a fare, perché si tratta sostanzialmente di un bilanciamento realistico fra speranze degli uni e timori degli altri, con vantaggi per tutti? Per cinque ragioni.

1. Il dato di realtà

Le classi sono lo specchio di ciò che è l’Italia oggi. L’attuale legge sulla cittadinanza, vecchia di trent’anni, non fotografa più il Paese reale, quel Paese reale che invece incontriamo quando entriamo in una qualsiasi aula. La convivenza multiculturale e multietnica è ormai condizione strutturale del nostro essere società e della nostra economia e va affrontata in maniera strutturale, non secondo una logica emergenziale. Proprio all’interno delle scuole l’origine migratoria “si perde” o meglio “si mischia” in una miriade di tratti che si intersecano e che ridisegnano i confini mobili delle somiglianze e delle differenze. L’inclusione, l’identità, l’appartenenza, la cittadinanza infatti non passano dalla rimozione delle proprie origini, in un processo di totale assimilazione, ma attraverso l’incontro e lo stare insieme nel modo più egalitario possibile. Al momento invece viviamo la paradossale situazione per cui in classe educhiamo questi ragazzi, come tutti, alla “cittadinanza e costituzione”, pur sapendo che molti di loro non avranno né cittadinanza né diritto di voto. Per coerenza, dovremmo forse allora esentarli dalle attività che riguardano l’educazione alla cittadinanza?


2. Percezione di sé e senso di appartenenza

Fra gli studenti “con cittadinanza non italiana” (c’è stato un momento in cui il report del ministero li aveva chiamati “studenti con background migratorio”, ma la dizione è stata presto abbandonata) più del 65% è nato in Italia, vive in Italia, compie in Italia il suo intero percorso di scolarizzazione ma non può essere cittadino se non dopo i 18 anni. Ogni tanto questi ragazzini scoprono di avere qualche diritto in meno rispetto ai loro compagni di classe: non possono andare in gita all’estero con la medesima facilità dei compagni, devono assentarsi per rinnovare il permesso di soggiorno, per essere tesserato in una squadra devono sobbarcarsi una trafila più complessa dei coetanei. La mancanza della cittadinanza su persone in crescita, che stanno costruendo la propria identità, non ha solo effetti pratici negativi, ma anche conseguenze sulla maturazione del senso di appartenenza alla comunità nella quale si vive. I pedagogisti evidenziano come nella fase dell’adolescenza i ragazzi e le ragazze con cittadinanza non italiana tendano a ritornare ad aggregarsi con i coetanei in base al paese di origine: arabo con arabo, cinese con cinese… Il riconoscimento della cittadinanza, il dare loro elementi certi su cui costruire il loro senso di appartenenza e la loro identità italiana limiterebbe il rischio che possano costruire la loro identità “arroccandosi” nel perimetro della comunità d’origine e delle sue tradizioni. La cittadinanza allarga automaticamente il perimetro del dialogo. Il riconoscimento della cittadinanza permetterebbe a questi ragazzi di godere appieno di tutte le prerogative di un cittadino italiano, ma l’altro aspetto importante è proprio l’impatto sulla loro percezione di essere parte integrata della comunità, non solo a scuola ma nella società, con ricadute significative dal punto di vista della coesione sociale. 

3. Le ragioni dell’economia e della competitività

La mancanza della cittadinanza non solo ostacola il senso di piena appartenenza alla comunità nella quale si sta crescendo, ma non favorisce nemmeno la possibilità di immaginare qui il proprio futuro. Una recente indagine di Save the Children su un campione di 15-16enni che vivono in Italia rileva che il 34,9% degli adolescenti di origina italiana aspira a trasferirsi all’estero, mentre fra gli adolescenti di seconda generazione ben il 58,7% pensa a un futuro fuori dall’Italia. Un dato preoccupante, che potrebbe alimentare una nuova forma di fuga di cervelli, un esodo di talenti che il Paese non può permettersi di perdere. A parte la questione “sport”, nel contesto demografico che tutti conosciamo, sono ormai numerosissimi gli studi, le  ricerche e le proiezioni che disegnano chiaramente la necessità di essere attrattivi per giovani lavoratori stranieri. Basti citare, sempre dal Meeting di Rimini, il governatore di Bankitalia quando ha detto che «per ridurre gli squilibri demografici una risposta razionale può essere l’introduzione di misure che favoriscano l’ingresso di lavoratori stranieri regolari», che «misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari costituiscono una risposta razionale sul piano economico, indipendentemente da valutazioni di altra natura» e che bisogna «rafforzare l’integrazione dei cittadini stranieri nel sistema di istruzione e nel mercato del lavoro».

4. Significa credere nella scuola

La cittadinanza significa garantire a ciascuna persona di essere quello che è, con le diversità che ognuno ha ma senza che la diversità generi disuguaglianza. Avere pienezza della cittadinanza e dei diritti fa vivere tutti da uguali, nella diversità. La cittadinanza legata al percorso scolastico non è un premio perché hai studiato, ma il riconoscimento di un percorso che hai fatto. Un percorso il cui esito non si misura in “che voto hai preso” o in “quante volte sei stato bocciato”, ma nel riconoscere che aver frequentato la scuola italiana per cinque/otto/dieci anni (o quel che sarà) non è qualcosa di indifferente, che passa senza aver lasciato un segno. Per respingere l’idea dello ius scholae il ministro Valditara ha detto che «non è tanto il numero di anni o il percorso scolastico seguito a fare la differenza, quanto la condivisione di valori, la conoscenza della lingua e la condivisione di un progetto di futuro». È esattamente questo il percorso che i ragazzi fanno a scuola, che siano di cittadinanza italiana o straniera. La scuola come nessun altro luogo è un “viaggio di cittadinanza” e una educazione alla cittadinanza. Lo ius scholae è una scelta di fiducia non solo verso i giovani che qui costruiscono il loro futuro, ma anche verso la scuola e gli insegnati.

5. Perché il Paese è pronto

Nel Paese il consenso sullo ius scholae è molto trasversale: già nel 2022, quando la proposta era in discussione in Parlamento prima di essere affondata sotto il peso dei 1.500 emendamenti presentati dalla Lega, un sondaggio di Action Aid disse che circa 6 italiani su 10 erano a favore.  A sorpresa anche il 48% degli elettori della Lega si dichiarava d’accordo, percentuale che scendeva a un 35% di tutto rispetto tra chi si dichiarava elettore di Fratelli d’Italia e saliva addirittura al 58% fra gli elettori di Forza Italia.

E per finire…

Per finire, leggete queste righe. Le ha scritte Mohan Kumar, un alunno della scuola Penny Wirton di Borgo San Lorenzo. Le trovate nel bel volume Atlante dal mondo nuovo. Voci e racconti delle Scuole Penny Wirton curato da Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi (in uscita per Il Margine il 6 settembre). Lui è nato in India ed io, nata in Italia, non avrei saputo dire meglio.

«La Costituzione è la legge fondamentale dello Stato italiano. È stata scritta dopo la Seconda guerra mondiale, che ha causato più di cinquanta milioni di morti e quindi promuove il valore della pace tra tutti i popoli della Terra. È valida dal 1° gennaio 1948, rifiuta la dittatura e sceglie la democrazia. In dittatura una sola persona comanda e il popolo obbedisce, nella democrazia invece il popolo elegge con il voto i propri rappresentanti che approvano le leggi e curano gli interessi di tutti.

La Costituzione dichiara che ogni persona ha dei diritti, per esempio alla propria salute e quindi a essere curata se sta male, a venire istruita con la scuola, a esprimere liberamente le proprie idee. Lo Stato deve rispettare e garantire i diritti della persona e non ha il potere di limitarli o abolirli secondo la propria volontà. Ogni individuo ha anche dei doveri di solidarietà nei confronti degli altri. Nessuno può seguire solo i propri interessi e tutti dobbiamo contribuire al benessere della comunità in cui viviamo.

L’Articolo 3 della Costituzione è uno dei più importanti e aff erma il principio di uguaglianza secondo il quale nessuna distinzione può essere fatta tra le persone in base al sesso, alla razza, alla lingua, alla religione, alle opinioni politiche. Quindi tutti hanno gli stessi diritti e nessuno può venire discriminato perché diverso dagli altri per alcun motivo; anzi, le diversità arricchiscono la vita della comunità in cui viviamo.

Secondo il principio di uguaglianza tutti devono avere le stesse opportunità anche se hanno diverse condizioni personali e ciascuno deve poter seguire le proprie aspirazioni. Quindi chi ha maggiori difficoltà (ad esempio perché povero, perché viene da altri paesi e non conosce la lingua e non ha frequentato la scuola, perché ha una disabilità fisica), deve essere aiutato dallo Stato e dalla comunità a diventare uguale agli altri e ad avere le stesse possibilità di lavorare, di studiare, di vivere in maniera libera e dignitosa».

Foto di Yingchou Han su Unsplash

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.