Cultura

Cinema & Vita. Intervista a Gianni Amelio. Adesso finalmente sono padre

Il regista del film più toccante dell’anno racconta il proprio percorso interiore come uomo e come professionista.

di Daniele Segre

Hotel Excelsior, 9 settembre 2004, ore 11.15: entro nella stanza 119, Gianni Amelio mi accoglie con un abbraccio.
Daniele Segre: Il tuo film, Le chiavi di casa, è una grande lezione di cinema. Quando l?ho visto mi sono emozionato per la tenerezza e la grande sensibilità che hai dimostrato, la naturalezza che si è stabilita nella storia, così semplice che non si nota nulla che può essere una ?partitura? o, al contrario, un?improvvisazione. Come sei riuscito a trovare questo grande equilibrio?
Gianni Amelio: Era la cosa più difficile, perché un film così non si può scrivere sulla carta. Ha bisogno non di un interprete, ma di un coautore, e se io non avessi trovato il coautore non l?avrei fatto. Dato il cinema che fai, credo che tu capisca molto bene. Certi interpreti è limitativo chiamarli interpreti; si prende vita da loro, ma contemporaneamente gliela dai tu, e così nel momento in cui li partorisci sono loro che partoriscono te! È stato esattamente il caso di questo film, che doveva per forza nascere in questa maniera, ed è per questo che io all?inizio non volevo farlo perché mi si richiedeva di fare un film «tratto da». Io pensavo: «Questo non può essere tratto da niente se non dalla mia pancia, dalle mie viscere!», perché non è un romanzo cui faccio le modifiche che voglio, qui si tratta di un uomo, Giuseppe Pontiggia, che a un?età molto adulta ha trovato, chissà dopo quanti anni di batticuore, la forza di raccontare il suo rapporto con il figlio. E allora dico: «Chi sono io per entrare come un intruso in questa vita? Devo crearmelo io questo figlio handicappato, devo partorirlo, se no il film non lo faccio». E allora c?è stato questo parto, facilissimo, perché, anche se quasi non ci si crede, esistono i miracoli in questo mondo, ci sono!
Segre: Mi parli del tuo rapporto con il protagonista, Andrea Rossi?
Amelio: Mi ha preso in modo così forte che ho subito pensato – dal momento che si deve imparare da quelli che lavorano con te – che quel ragazzo poteva insegnarmi delle cose. E infatti il ?signor Rossi? mi ha insegnato come fare il film, cioè tutto quello che nel film è spoliazione, anche di mezzi tecnici. Non è un segreto che ho girato in super 16. Adesso si può fare di tutto, grazie ai progressi tecnologici, e l?ingrandimento a 35mm è perfetto, però mi sono detto: «La cosa principale deve essere l?immediatezza di quello che si stabilisce fra me e il signor Rossi. Se metto dei diaframmi, anche quelli considerati necessari per fare un film, tra noi due tutto cala, tutto crolla, diventa un?altra cosa». E io non volevo. Volevo un film dove ci fosse molto il corpo, senza che questo corpo fosse ostentazione sadica, speculazione sulla mano fatta in un certo modo, ma senza nemmeno rinnegare la normalità di quel camminare così.
Segre: Hai tolto molti degli orpelli del mestiere…
Amelio: Proprio così. Una volta mi sono definito «il Cecil De Mille del primo piano», nel senso che non ho bisogno, non me ne frega niente di avere il Mar Rosso che si apre, 100mila carri che corrono, ma quando faccio un?inquadratura su una faccia di una persona, be?, lasciatemi il tempo di farla bene! Perché non è che ci vuole tempo per fare il passaggio del Mar Rosso, per questo oggi c?è il computer, ma ci vogliono anni, quasi, per fare un primo piano di una faccia.
Segre: Ho avuto l?impressione che, oltre a dover esserti inventato padre, oltre a essere stato autore tu sia stato anche spettatore, in questo film. Cioè hai lasciato un grosso spazio aperto per vedere quello che succede.
Amelio: Si può dire in una parola quello che non c?è, in questo film: non c?è il compiacimento inteso come pietismo, come lacrimuccia da versare sul caso umano. È molto antitelevisivo, contiene il rifiuto di certi meccanismi drammaturgici di cui la televisione abusa. Perché la macchina da presa o la telecamera può essere anche un?arma terribile, un bazooka, se uno non la sa usare.
Segre: In alcune scene del film hai usato un auricolare per rimanere in contatto con Andrea. Hai utilizzato questo sistema per suggerirgli delle battute o semplicemente per indirizzarlo?
Amelio: Ci sono stati momenti in cui Andrea era stanco, perché aveva ?addosso? l?intero film, e allora si sentiva più sicuro se comunicava con me, se sapeva che c?ero io dall?altra parte che gli parlavo. Alcune volte gli dicevo anche cose che non avevano niente a che fare con le battute del film, per esempio: «Forza Andrea che poi il premio lo vinci tu!». Lui è abituato allo sport, perché lo pratica, e parlerebbe sempre di calcio, di partite. Mentre giravamo a Berlino giocavamo sempre a calcio, la domenica, tra macchinisti, elettricisti e troupe, e lui si metteva la maglietta della Lazio e stava a bordo campo a fare l?arbitro, era felicissimo e urlava come un dannato. Avevamo organizzato il torneo del ?miglior attore della settimana?, e ovviamente lui se lo doveva guadagnare, però quando non vinceva erano dolori.
Segre: C?è stata improvvisazione o è stata seguita fedelmente la sceneggiatura?
Amelio: Una cosa e l?altra. È un film molto scritto dove non il personaggio ma la persona, Andrea Rossi, è stato il motore di tutto, anche a livello di linfa vitale che ha dato a ciascuno di noi. Ci sono in questo mestiere del cinema dei vezzi, io li chiamo così, che ciascuno di noi assume anche involontariamente, e che scambia per cose essenziali. Il regista ha certe pretese e guai a non accontentarlo, l?attore la stessa cosa, il macchinista non può sforare di mezzo secondo lo straordinario… sono i cosiddetti problemi dei ?cinematografari?. Arrivava Andrea e tutto questo si azzerava. Si azzerava. Di fronte ad Andrea, di fronte al suo modo di stare in mezzo al gruppo non si possono fare queste cose, se no sei un cretino. Andrea ti dice: «CRE-TI-NO!» e tu o dimostri la tua cretinaggine, oppure cambi, cambi atteggiamento.
Segre: Ma come l?avete convinto a recitare? L?avete incontrato, fatto un provino…
Amelio: Andrea sta ancora recitando, nel senso che il film, giuro, per Andrea non è finito; fare il film per lui significa continuare ad avere dei rapporti umani all?interno di un gruppo che ha bisogno di lui. Tutto questo per lui è diventato prezioso e continua, guai se finisse. Almeno la metà delle persone che hanno fatto il film continuano ad avere, me compreso, un rapporto quotidiano con Andrea. Andrea non voleva rimanere in albergo quando non era convocato, ma stare con noi. Un giorno sapevo di non aver bisogno di lui se non al pomeriggio, e quindi non gli avevo mandato la macchina a prenderlo alla solita ora. Lui non vedendola arrivare ha detto: «Che è successo? Gianni non mi vuole più! Gianni non vuole che vada da lui». Il padre mi ha telefonato e allora l?ho mandato subito a prendere. Se sapeste che tipo è… Quando Charlotte Rampling, donna meravigliosa, di grandissima intelligenza, è venuta a Roma per conoscere Andrea, c?è stato all?inizio un minimo di imbarazzo, per cui a un certo punto la Rampling gli ha chiesto: «Dove sei nato?», e lui: «Io so? romano e tu?», e lei: «Io sono nata in Inghilterra, ho vissuto molti anni a Londra, poi mi sono trasferita in Francia e adesso vivo a Parigi». Lui la guarda mezzo secondo, poi si volta verso di me e mi dice: «Questa me sta a cogliona?». Io sibilo: «Andrea che dici?», e lui: «Me dice che è nata a Londra, in Inghiltera, me dice che vive a Parigi e perché me parla in italiano?».
Segre: Adesso che il film è finito come sta?
Amelio: Lui ha capito che è finita una fase del nostro rapporto. Il film l?ha visto, e anche parecchie volte, e tutte le volte anticipa la battuta, sempre, e si critica: «Questa non l?ho fatta bene, questa non l?ho fatta bene!», e poi dà la colpa a me, dice: «Tu me dovevi da di? come la dovevo fare meglio, perché tu quel giorno l?hai detto piano e io non ho sentito». È straordinario. Al primo incontro con i capi della Rai, un alto dirigente indicando una delle sue assistenti, giusto per dire qualcosa ha detto: «Di questa ragazza cosa ne pensi?», e lui: «Certo che tanto normale non è!». È una battuta che ho preso per il film!
Segre: In che senso la rappresentazione dell?handicap e della diversità è fatta normalmente in modo da suscitare la lacrimuccia borghese, come dicevi prima? Perché si rappresenta in questo modo la diversità?
Amelio: Di fronte a un handicappato, usiamola pure questa parola, il nostro sentimento quasi unanime è il pietismo, la pietà, per cui diciamo che è stato «sfortunato». Io ritengo invece che faremmo molti passi avanti se riconoscessimo che l?unico terreno di uguaglianza è il riconoscimento della nostra e dell?altrui diversità. Io e te possiamo considerarci uguali, sullo stesso piano, solo se tutti e due accettiamo la nostra differenza, tu sei una cosa e io sono un?altra, opposta. Siamo uguali, ma non nel senso che c?è un canone che rende l?uguaglianza una cosa alla quale io, te e tutti quanti dobbiamo conformarci. E poi nel caso di un figlio c?è anche un altro aspetto. Noi un figlio lo vogliamo ?vendicatore? della nostra vita e dei torti subiti. Ne sono convinto. Se noi siamo bassi e senza una lira, vogliamo che nostro figlio sia alto, ricco e fortunato, perché ci deve vendicare. Se il figlio che vediamo nascere non ha la possibilità di essere questo, scappiamo, scappiamo. Anche non scappando, scappiam. Anche mettendoci a piangere. In fondo la lezione del film in una parola è una: «Non piangiamoci addosso!». Ecco, non piangiamoci addosso.

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.