Non profit
Cina. Passo a passo. La scalata del non profit
Esiste il terzo settore in Cina? Se cerchi delle ong all’occidentale, la risposta è no. Gary Hallsworth, del British Council, che ha lavorato nel Paese, mi aveva avvertito prima che partissi: «Il non profit cinese opera in un contesto legale, amminist
di Redazione

«A dicembre 2006 c’erano 354mila organizzazioni registrate presso il ministero degli Interni che gestisce il terzo settore a tutti i livelli», mi svela Haoming Huang, presidente di Cango, associazione fondata nel 1992 con l’aiuto di diversi donatori stranieri, che riunisce 137 ong e si occupa della valorizzazione delle loro capacità professionali.
Del terzo settore cinese fanno parte sia il governo sia i cittadini che hanno fondato organizzazioni non governative, soprattutto quelle che lavorano nel campo dell’assistenza sociale, dello sviluppo locale, del sostegno e della difesa delle fasce più deboli della società e dell’attivismo civico. Ma stanno spuntando come funghi anche gruppi d’interesse e associazioni commerciali e professionali. Le regole per essere riconosciute dallo Stato?
Il controllo statale
Ogni organizzazione dovrebbe registrarsi presso il ministero degli Interni. Per la registrazione serve un supporter istituzionale che approvi la pratica. A questi, e al ministero degli Interni, l’ong deve rendere conto una volta registrata. Coltivare buoni rapporti con il governo è essenziale. Un funzionario governativo che ha scelto l’anonimato mi spiega che il terzo settore deve collaborare con il governo e non mettere in crisi la sua legittimità. Ogni forza deve contribuire a sviluppare l’“armonia sociale”: questo è l’attuale mantra nazionale. Dalle ong internazionali in primo luogo ci si aspetta che collaborino con le amministrazioni locali. E non esiste che si sviluppino network indipendenti con ong locali bypassando lo Stato. «In definitiva, il governo ha salvato oltre 400 milioni di cinesi dalla fame», ha concluso il funzionario, «un vero successo se comparato allo standard di qualsiasi ong». Da qui, forse, la reticenza ad affidare servizi pubblici al non profit. Qunghua Song , è presidente di Shining Stone Community Action che ha fondato nel 2002 per promuovere la partecipazione politica delle comunità. Per lui la colpa è anche della società civile: «Di norma le organizzazioni partono dal progetto di un fondatore carismatico ma poi gli investimenti nello sviluppo di personale qualificato sono scarsi e il reclutamento del consiglio direttivo è un vero e proprio incubo».
Il decollo della filantropia
Come nel resto del mondo, i finanziamenti sono la prima preoccupazione per il non profit. «Dal 2008 le imprese potranno ottenere uno sgravio fino al 12% dei loro profitti, mentre i privati fino al 30% del loro reddito», spiega Haoming Huang, specificando che ciò vale solo se si dona a organizzazioni autorizzate dal ministero delle Finanze. È una misura molto innovativa per la società civile cinese che, finora, poteva accedere unicamente ai finanziamenti governativi o alle donazioni dall’estero. Altra novità e la filantropia aziendale, svela Ben Xu , direttore delle relazioni internazionali di China Children and Teenagers Fund (CCtf), la prima charity creata in Cina nel 1981: «Sempre più aziende locali fanno donazioni. Alcune stanno iniziando a valutare l’efficienza e la qualità dei programmi che finanziano». La csr è la nuova parola d’ordine per gli uomini d’affari cinesi. Clare Person , responsabile csr della Dla Piper, è convinta che le multinazionali in Cina si giocano la reputazione sui mercati occidentali. Le ong le tengono d’occhio e sono pronte a denunciare ogni irregolarità. Tuttavia non c’è una vera e propria cultura della responsabilità sociale: così le aziende hanno difficoltà a scegliere i loro partner locali e a realizzare una strategia di csr.
La missione Africa
Il terzo settore in Cina si è sviluppato anche a livello internazionale. Sono stato invitato al ricevimento che il segretario generale del China Ngo Network for International Exchange, Cui Jianjun , tiene ogni anno. La sua organizzazione ha riunito per prima un gruppo di ong cinesi interessate allo sviluppo in ambito internazionale. Tutto è iniziato circa due anni fa e oggi contano circa 30 partner tra i quali Onu Cina e la Croce Rossa cinese. La prima volta che ho incontrato Cui Jianjun è stato a Nairobi, al World Social Forum; lui stava promuovendo il nuovo impegno della Cina in Africa e cercando partner per sviluppare il suo progetto. Le ong occidentali si scandalizzarono quando gli attivisti africani accettarono la sua offerta. Non disdegnavano che un nuovo attore entrasse nel “mercato” degli aiuti trasformandolo da monopolio occidentale in libero mercato. Durante il mio viaggio in Cina sono stato invitato al forum che Dla Piper ha dedicato al ruolo della Cina in Africa. Il forum è uno degli eventi più interessanti della comunità cinese ed internazionale di Pechino. I termini del dibattito erano questi: la presenza della potenza cinese in Africa potrebbe creare una nuova alleanza multilaterale per lo sviluppo dell’Africa e gli africani potrebbero trarre enormi vantaggi da un mercato più competitivo degli aiuti e da nuovi investimenti. In caso contrario l’Africa tornerà ad essere un campo di battaglia per aggiudicarsi risorse e potere a livello internazionale.
Cosa accadrà?
La chiave per capire la Cina si trova nel Parco dell’Imperatore, all’interno della Città Proibita. Lì c’è una scultura enorme in pietra con un cartello che recita: «Un solo gesto sbadato porta alla perdita d’eterna bellezza». Quel che in Inghilterra si sarebbe tradotto con un semplice «non toccare». In quel giardino ho imparato che la Cina chiede rispetto e sospensione del giudizio se davvero vuoi capirne la società. Il Paese ha il suo personale percorso di sviluppo. Basta guardare al settore industriale: il governo l’ha trasformato da potenziale minaccia al migliore alleato, inserendo i più importanti industriali al vertice del Partito. Scommetto che capiterà la stessa cosa per il terzo settore. È lo stile cinese. Parafrasando un motto di Deng Xiao Ping, il capostipite della rivoluzione economica: «Che importa se il terzo settore è bianco o nero: l’importante è che risolva i disagi sociali».
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