Mondo

Cina, la vita inghiottita

Due anni per distruggere, con la diga delle Tre Gole, una città che ha vissuto venti secoli. Un record assai triste, questo della Cina moderna descritta con...

di Maurizio Regosa

Due anni per distruggere, con la diga delle Tre Gole, una città che ha vissuto venti secoli. Un record assai triste, questo della Cina moderna descritta con dolente, severa amarezza da Jia Zhang- Ke, nel suo bellissimo secondo film Still life (il primo era Dong, un documentario del 2004, apprezzato a Venezia). Un Paese allo sbando, in cui – come si dice in una scena – le persone per bene sono scomparse e non c?è più posto per quelle che non si sono modernizzate. Una nazione in cui ciascuna voce si sovrappone a quella dell?altro urlando diritti che non pretendono quasi più di essere ascoltati, che tanto?

Adulti aggressivi e allo sbando, oppure indifferenti e ormai privi di vitalità, bambini troppo adulti che cantano d?amori perduti e fumano sigarette, sicuri solo della loro incerta condizione.

Sono le disuguaglianze del tempo d?oggi. Di una grande civiltà ormai irriconoscibile la cui cifra è la transizione. E quindi lo sradicamento. Il continuo peregrinare. Non a caso il film si apre e si chiude mostrando un traghetto pieno di persone: attraversano il lago che oggi esiste dove un tempo fu il villaggio di Fengjie. Gente che va o viene e non sa dove sostare. Come i due protagonisti. Un uomo e una donna. Ciascuno nella propria solitudine. Ciascuno sulle tracce di chi un tempo ha amato e ha perduto, non sentendo l?urgenza di una ricerca procrastinata così di anno in anno. E quando l?indagine prende avvio, è tardi: a costruire l?orizzonte non restano che macerie, spazi vuoti e lancinanti, nei quali qualcuno può trovare un pertugio in cui acquattarsi. Qualche altro può trovare la morte.

Cresce così questo film, senza la pretesa dimostrativa della ragione giudicante, divenendo discorso assai più ampio di Fengjie e affastellando interrogativi sul passato e sul senso della morte che incombe, mettendo in parallelo e collegandoli smarrimento e fine di ogni progetto. Cresce, e a suo modo seduce, attraverso immagini fortissime della distruzione in corso, molto abilmente costruite e sulle quali la macchina da presa indugia per farne sentire meglio il dolore. Cresce mediante un sistematico ma quasi mai prevedibile scarto fra le situazioni, che quindi non hanno soluzione, restano come appese. Esattamente come le vite umane.

Uno scenario desolante al quale però il regista non pare arrendersi. Lo suggeriscono il coraggio di chi ancora si incammina per un altrove lontano e la leggerezza di un acrobata che cammina sul filo steso fra due palazzi in rovina. Still life, appunto.

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