Formazione
Cina globale: e ora l’Africa si colora di giallo
Sono oltre 700 le aziende di Pechino che operano nel continente nero. Cè chi teme che lAfrica si trasformi in un terreno di scontro
«Di questo passo l?Africa diventerà gialla,altro che nera!», commenta sommessamente un signore sulla quarantina, di nazionalità britannica, indicando con lo sguardo una comitiva di cinesi. Accovacciato su una scomodissima seggiola, in uno dei rari angoli riservati ai fumatori, in fondo a un lungo corridoio dell?aeroporto internazionale di Nairobi, muovendo le labbra, trattiene a fatica la sigaretta che pendola su e giù come fosse una sorta di feticcio. Vive in Sudafrica e dice di fare l?imprenditore. Viene il sospetto che possa essere un trafficante d?armi o di pepite visto che indossa con disinvoltura, sotto il collo della camicia, una catenina d?oro con relativo ciondolo a forma di kalashnikov. Ha comunque l?ardire, qualche minuto dopo, di sfogare tutto il proprio risentimento contro i cinesi che nel frattempo, rigorosamente in fila, stanno per imbarcarsi su un volo della Kenya Airways diretto a Daar Es Salam.
Non sono turisti, si tratta invece di una delegazione d?industriali partita da Shangai, in viaggio d?affari nell?Africa orientale. L?inglese l?aveva intuìto e li fissa come fossero nemici: «D?ora in avanti», dice con freddezza, «la concorrenza tra Cina e Occidente sarà sfrenata e l?Africa potrebbe trasformarsi in un campo di battaglia». In effetti le premesse per una guerra commerciale tra i due opposti schieramenti (compagnie occidentali e cinesi) ci sono tutte. Anche perché di questi tempi, un po? tutti i paesi industrializzati del pianeta, per ragioni energetiche e non solo, guardano con bramosìa alle immense risorse dell?Africa, Cina in testa.
Bramato petrolio
D?altronde, bastano alcune cifre per comprendere di cosa stiamo parlando. Il commercio cinese col continente è aumentato in maniera esponenziale dal 2000 ad oggi (di ben 4 volte in cinque anni) raggiungendo i 37 miliardi di dollari annui. Oggi sono almeno 700 le imprese gialle disseminate nei quattro angoli dell?immenso territorio africano che operano nel settore delle grandi imprese e in quello minerario, dal petrolio al carbone, dal cobalto al gas, dal rame al cobalto. Il governo di Pechino deve fare i conti con tutte le contraddizioni del libero mercato: dalla gestione di un apparato industriale che può contare su un esercito senza precedenti di oltre 750 milioni di lavoratori disposti ad affrontare ogni competizione alla smisurata necessità di risorse energetiche, di materie prime e persino di beni di lusso per una classe imprenditoriale che pare arricchirsi a dismisura.
Ecco perché la Cina sosterrà la richiesta dell?Africa per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Lo ha detto chiaro e tondo il 16 gennaio scorso Li Zhaoxing, ministro degli Esteri di Pechino, durante la sua breve visita in Nigeria, lo stato più popoloso del continente e attuale guida dell?Unione africana. E quasi contemporaneamente veniva concluso un accordo di 2,3 miliardi di dollari per la China National Offshore Oil Corp, acquistando una rilevante partecipazione in una società nigeriana che possiede giacimenti di petrolio e gas.
Ma la Cina, secondo importatore mondiale di petrolio dopo gli Stati Uniti, con una popolazione cinque volte superiore a quella degli States, ha anche un debole particolare per un altro paese africano, il Sudan. Infatti, dal 1999, dopo anni di esplorazioni e di limitata produzione per l?interno, è attivo il più importante bacino sudanese di estrazione petrolifera per l?esportazione, quello di El Muglad, 800 chilometri a Sud-Ovest della capitale, Khartoum. La produzione di greggio, trasferita al terminale di Suakin sul Mar Rosso da un oleodotto di 1.600 chilometri, fa capo al consorzio Gnpoc – Greater Nile Petroleum Operating Company che ha come socio di maggioranza la compagnia di Stato cinese China National Petroleum Corporation (40% del capitale). E mentre nel Darfur infuriano violenze, Pechino, che non ha mai avuto una particolare predisposizione per il rispetto dei diritti umani, si è sempre fermamente opposto alle sanzioni contro il Sudan. Un?opposizione ripagata con un considerevole aumento delle esportazioni dal Sudan verso la Cina, che ormai assorbe il 70% del greggio di Karthoum e che a sua volta contraccambia la ?cortesia? oltre che con la copertura politica al Palazzo di Vetro, anche con la fornitura di armi, investimenti per oltre un miliardo e mezzo di dollari nel breve periodo, la costruzione di pozzi petroliferi, 600 chilometri di oleodotti oltre all?ammodernamento delle raffinerie e dei porti.
Logiche clientelari
E Pechino si muove a tappeto sul continente africano, investendo centinaia di milioni di dollari secondo logiche clientelari che acuiscono la corruzione a 360 gradi. Sta di fatto che i cinesi fanno affari con il dispotico presidente Robert Mugabe nello Zimbabwe, un personaggio quantomeno controverso; vendono armi, per citarne alcuni, a Namibia, Sierra Leone, Mali, Angola e Nigeria; finanziano opere civili senza pretendere alcuna verifica sulle spese e favorendo continuamente, senza scrupoli di sorta, l?appropriamento indebito da parte dei politici locali. La parola d?ordine impartita da Pechino alle proprie ambasciate in Africa è una sola: «favorire il commercio», comprando tutto, dall?oro nero al cotone passando per diamanti, oro e quant?altro.
È difficile prevedere quali possano essere i benefici reali per le popolazioni africane, anche perché il pragmatismo cinese non pare andare molto d?accordo con gli ideali dei fautori della democrazia. Èfrancamente difficile prefigurare effetti positivi per l?Africa quando di fatto la Cina, nuovo gigante dell?economia mondiale, ripudia ogni forma di regolamentazione del lavoro. Oltretutto il rischio è che a lungo andare il conflitto tra gli opposti interessi cinesi e occidentali in terra africana, per allentare soprattutto le rispettive dipendenze energetiche dal Medio Oriente, possa destabilizzare l?Africa. È triste doverlo ammettere, ma potrebbe davvero avere ragione il misterioso signore inglese; sebbene a lui sfugga un particolare non irrilevante: che a pagare il prezzo più alto è sempre la povera gente.
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