Mondo

Ciberspazio & hackers. La giustizia attiva della rete cittadina

di Emanuela Borzacchiello

Brutta storia. Una di quelle che non volevamo ci arrivassero dall’altra parte del mondo: il caso Rehtaeh. In molti lo ricordano. Canada, 2011.

A 15 anni sarà capitato anche a noi: “Vado a casa di un’amica” e invece si usciva con amici, superando i confini imposti dall’adolescenza. Una notte di quando uno ha 15 anni, Rehtaeh supera gli steccati dell’adolescenza e va ad una festa. Un gruppo di ragazzi la rapisce e violenta ripetutamente, uno dopo l’altro. Ma è ancora troppo poco. La violenza dal reale deve essere amplificata e catapultata nel ciberspazio, così appare più grande, così si trasforma in inespugnabile. Piccoli uomini che giocano a “io non ho paura”. Un gioco a cui più si gioca e più sembra che i propri muscoli siano i più forti di tutti.

E invece la forza è un’altra cosa, e questo ce lo racconta il prosieguo della storia.

Rehtaeh scopre che le foto del suo corpo, delle sue mani che non riuscivano a difendersi e dei piedi che non potevano scappare, sono state pubblicate dovunque in internet. Dai piccoli villaggi alle grandi città, le storie si clikkano di bocca in bocca ed così che i piedi restano senza più spazi in cui scappare. Mentre le mani scrivono una lettera, con un’ultima parola: suicidio. Ancora oggi, di una sola cosa suo padre è sicuro: “mia figlia non è morta solo per la violenza, il bullismo, ma per l’indifferenza dei compagni di scuola, dei professori, per il mancato intervento – anche se richiesto – della polizia. Tutti lo sapevano, nessuno l’ha aiutata in tempo”. Quello che i genitori di Rehtaeh continuano a dire è che la violenza perpetrata usando il ciberspazio, nessuno l’aveva considerata come una violenza. Prima si violano i corpi, poi tutti gli spazi in cui i nostri corpi possano vivere. Una violenza che può lasciare senza spazi, ma anche “senza fiato”. Chi scrive ha lavorato con donne vittime di violenza e una di loro oggi le racconta: “continuavono a inviarmi mail, messaggi in twitter, foto porno in facebook. Una mattina, al lavoro, mi sono sentita come senza fiato. Ho pensato: stanno arrivando a casa mia”.

A questo punto della storia non arriva il principe azzurro a salvarci, ma un gruppo di hackers. Donne e uomini esperti in nuove tecnologie che si sono uniti per dar vita a Anonymous, un movimento ciberattivista per la giustizia in rete. Se la polizia canadese aveva affermato che non era possibile scovare i colpevoli della pubblicazione nel web delle foto di Rehtaeh, Anonymous indignato ha preso in mano il caso e ha lanciato attraverso le reti sociali domande giuste per reperire testimonianze, ha fatto incetta di tutte le foto, ha creato un archivio che documenta tutto il caso e scritto proproste su come agire. Sigillato e consegnato alla polizia con un avviso: se non usate questo materiale e se non arrestate i colpevoli, pubblichiamo in rete tutte le prove e i nomi.

Ora, però, ci fermiamo per un cortocircuito. Di quelli che solo un grande gesto di dignità nutrito da un senso profondo di giustizia può innescare: la madre di Rehtaeh chiede al gruppo di non farlo, di non pubblicare in rete il nome dei colpevoli in nessun caso, perchè “voglio giustizia non vendetta”. Una storia con una sola morale: la lezione del caso di Rehtaeh Parsons è valida per tutti i paesi del mondo, non solo per il Canada. Una lezione che è forse giusto rispolverare proprio in questo momento in Italia.

Il ciberespacio può dar vita a confusione, violazioni e tutto quello che già è stato scritto. Ogni giorno cresce il flusso di pornografia, in particolar modo infantile. Parallelamente abbiamo migliaia di persone, come il movimento ciberattivista Anonymous che collaborano per una rete di giustizia cittadina. Dimostrano che non bisogna sostituirsi alle istituizioni, ma che c’è uno smisurato bisogno che le istituzioni lavorino per una giurisprudenza aggiornata in materia di nuove tecnologie e violenza.

Anonymous ha scritto “l’impunità educa i giovani a pensare che ogni gesto di violazione non sarà castigato, mentre è un delitto e deve essere inteso come reato penale. L’inefficienza della polizia e la mancanza di adeguati strumenti legislativi pone i giovani in pericolo”.

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