Fino a qualche tempo fa per accendere il dibattito intorno al terzo settore era sufficiente tirare in ballo questioni legate alla sua identità e in particolare al fatto che questa fosse esposta a rischi di colonizzazione da parte di attori esterni (in particolare se provenienti dal mercato). Oggi, in una fase in cui sui grandi impianti definitori esiste un consenso sempre più diffuso, anche perché nel frattempo sono stati incardinati negli articolati normativi e nei dispositivi di policy, l’attenzione di sposta su un piano in parte diverso, e per certi versi più insidioso, che riguarda i modelli gestionali di governance. Si tratta di un piano “mezzanino” dove il mondo della ricerca incontra quello della formazione e della consulenza generando conoscenze applicate che si “materializzano” in approcci e strumenti manageriali tutt’altro che neutrali e che diventando di uso comune contribuiscono a generare e riprodurre elementi di significato in grado di sortire effetti più pervasivi e profondi rispetto alle definizioni formali perché agiscono soprattutto a livello di cultura organizzativa.
Per cercare di comprendere le implicazioni di questo processo di “trasferimento tecnologico” basta guardare a quella che si può considerare la sua principale realizzazione ovvero la modellistica degli stakeholder. I cosiddetti “portatori di interesse” rappresentano non solo una concettualizzazione di origine scientifica ma anche, e forse soprattutto, un evergreen gestionale, in particolare per tutto quello che non è rendicontazione strettamente economica. Non sorprende quindi che l’approccio dei portatori di interesse si sia diffuso anche tra nel terzo settore influenzando non solo i modelli di management ma anche la narrazione; basti pensare ad espressioni come “multi stakeholder” ormai divenute di uso comune tra gli addetti ai lavori.
A un primo sguardo sembra una questione di dettaglio, legata cioè alle modalità di utilizzo della strumentazione, ad esempio in sede di mappatura degli stakeholder. In realtà guardando ai sottostanti culturali e al back-end definitorio il quadro appare meno lineare. La teoria e la modellistica degli stakeholder poggia infatti su una visione del campo sociale segmentata da logiche di interesse alimentando così identikit sempre più stereotipati. Lavoratori, consumatori, rappresentanti istituzionali, persino le comunità appaiono come artifici piuttosto che veri e propri soggetti e agenti. E questa rappresentazione, così schematica, non fa che impoverire i meccanismi relazionali, ovvero il “dialogo” con gli stakeholder e, a cascata, le modalità del loro coinvolgimento (engagement). Soggetti che appaiono come simulacri di una realtà che invece rinviene le sue principali istanze di cambiamento proprio su una maggiore fluidità e ibridazione di ruoli e funzioni (basti pensare ai prosumer) e sulla riproposizione di un approccio più organico all’azione collettiva. Le nuove organizzazioni comunitarie e neomutualistiche – come cooperative di comunità, comunità energetiche, food coop – con i loro approcci basati sulla ricerca di una comunanza lavorando su adiacenze e similitudini contribuiscono a rendere evidenti i limiti dei “parlamentini” degli stakeholder nei quali tendono invece a prevalere rapporti di dominio o micro accordi di compromesso piuttosto che missioni e risorse condivise. Un dettaglio non da poco considerando che tutto ciò che è, o meglio che diventa, “comune” rappresenta il vero discrimine affinché le transizioni verso nuovi assetti di società siano davvero tali.
Cosa c’entrano gli stakeholder con l’integrità identitaria di tutto ciò che è “terzo” rispetto a Stato, mercato e informalità appare quindi chiaro. E’ a partire da questa impostazione che si strutturano i sistemi di governance (anche a livello normativo), i modelli di valutazione e rendicontazione (soprattutto se d’impatto), i contenuti di beni e servizi (si pensi, ad esempio, ai modelli “persona” utilizzati nel design dei servizi). Aprire un confronto non solo sulle modalità di applicazione del modello, ma sulle sue ragioni di fondo, sui sostrati ideologico culturali su cui si regge, sarebbe quindi auspicabile. Prima che tutto si trasformi in una routine alimentata da una tecnocrazia manageriale e consulenziale che fagocita il senso delle organizzazioni, in particolare di quelle che intendono esplicitare e perseguire un qualche scopo sociale.
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