Formazione
Ci scrive Bertoli: perché ho tentato il suicidio
Lettere dal carcere. Risponde Cristina Giudici
Di Gianfranco Bertoli, anarchico, condannato all?ergastolo per la strage alla questura di Milano del 17 maggio 1973, le cronache si sono rioccupate il 15 giugno quando, nell?inchiesta su piazza Fontana e dopo l?arresto di tre neofascisti veneti, il giudice inquirente, Lombardi, ha ritirato fuori la storia che Bertoli sarebbe stato ingaggiato da una cellula di Ordine Nuovo per la rappresaglia contro l?allora ministro dell?Interno Rumor. Bertoli, in regime di semilibertà nel carcere di Livorno, si era presentato alla redazione del Tirreno per smentire l?accusa: «Resto anarchico, continuo a credere in questo ideale anche se rinnego l?attentato. Non sopporto di essere considerato un fascista». In questi giorni il magistrato di sorveglianza doveva decidere se concedergli la libertà condizionale. Ma dopo il tentato suicidio del 19 giugno scorso, il magistrato gli ha revocato la semilibertà. Bertoli ci ha scritto questa lettera.
Sono Gianfranco Bertoli, quel detenuto allora semilibero che lei ha conosciuto a Livorno l?anno scorso. Ricordo che la feci sorridere quando, dopo che una persona ci presentò precisando che si occupava di carceri, risposi dicendo: ?Purtroppo è il carcere che si occupa di me?. In seguito ho ricevuto regolarmente il settimanale ?Vita?. Ma un po? per una mia pigrizia epistolare quasi patologica e un po? perché non ho mai avuto qualcosa di significativo e/o interessante di cui parlarle, ho trascurato perfino di mandare due righe di ringraziamento. Colgo, perciò l?occasione per ringraziarla oggi. Credo lecito supporre, avendone parlato i giornali, che sia al corrente delle mie ultime ?disavventure?. Sta di fatto che ho perduto la mezza libertà di cui usufruivo e mi trovo ancora una volta nella considerazione di carcerato a tempo pieno a ricominciare da capo, dopo 24 anni, un??espiazione di pena? resa più dolorosa dall?età e dalla totale miseria in cui verso. Se la condanna inflittami a suo tempo è giuridicamente giusta ed anche meritata, alla luce della spaventosa gravità del delitto che ho commesso; del tutto ingiusto è stata la persecuzione e il linguaggio morale, pervicacemente e periodicamente rinnovati, attraverso le reiterate ?esternazioni? di un certo magistrato che pretestuosamente protrae una pseudo ?istruttoria stralcio? (nominalmente con l?obiettivo di scoprire ipotetici e inesistenti ?complici? e ?mandanti?) che si riduce nel periodico far ?filtrare? e divulgare dalla stampa la notizia di sempre nuove asserite ?scoperte?, spesso contraddittorie e finora mai avallate da riscontri oggettivi. lasciate, quindi, cadere per riproporle ?mutatis mutandis?, uno o due anni dopo.
Le capacità di resistenza psicologica di un essere umano hanno i loro limiti e, stanco del continuare da anni a lottare per ribattere, smentire, spiegare e difendermi, di fronte alla ennesima e recentissima reiterazione della solita manovra di distorsione, fanta-giuridico-politica, dell?immagine per rapporto al reale, sono crollato e sono caduto in una disperazione che mi ha spinto a farla finita. Se dovevo uccidermi, però, volevo poterlo fare in modo dolce e senza gesti cruenti e ulteriori sofferenze. Decisi di uccidermi con un?overdose e così, dopo aver brindato da solo con dello spumante (quasi a voler ?festeggiare? un evento che mi avrebbe liberato per sempre dalle calunnie e dalle vere e proprie torture psicologiche con cui mi si è perseguitato per 24 anni) mi sono iniettato un vena un grammo e mezzo di eroina e un intero flacone di ?minias?. Mi è andata male perché, per una serie di coincidenze, sono stato soccorso quasi subito e dopo due giorni di ?coma? e una successiva degenza di una settimana per una sopravvenuta broncopolmonite, sono stato ammanettato e portato al carcere. Vorrei permettermi una domanda che in un certo senso è ?retorica?. Questa: ammesso che la revoca della semilibertà sia una decisione formalmente ineccepibile e anche inevitabile sul piano giuridco-burocratico, come la mettiamo sul piano etico?
Il voler morire e tentare il suicidio non è un reato o una violazione di qualche norma penitenziaria. È anche ovvio che, per arrivare al tentativo di togliersi la vita, è necessario che una persona abbia seri motivi di sofferenza (fisica o morale). Che senso ha volerlo punire e infliggergli così ulteriori sofferenze? È moralmente lecito far soffrire una persona perché ha commesso la colpa di soffrire?
Gianfranco Bertoli
Caro Bertoli, mi ricordo molto bene di lei, anche perché il nostro incontro mi colpì molto. Quando la conobbi in una festa civica a Livorno, mi raccontò che voleva scrivere la storia di un detenuto obbligato a vivere per il resto della sua vita su una linea di confine senza mai poter decidere da che parte stare finché, un giorno, decideva per il suicidio. Mi allieta sapere che la trama del romanzo ha avuto un diverso esito. Provi a riscrivere quella storia, la sua storia, le sue domande interpellano tutti noi. Continui a scriverci.
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