Volontariato

Ci piaceva pensare che morivano i cadaveri. Ma le vittime chi sono?

di Giulio Sensi

Prima era un'influenza qualunque, poi ammazzava anche meno di un'influenza qualunque, ancora dopo ammazzava un po' di più, in seguito è letale a percentuali mai viste, una strage, una pandemia, moriremo tutti, stiamo in casa che se ti vedo in giro ti denuncio e ti sputo dal balcone.

Per carità, forse era impossibile capire a cosa stavamo andando incontro. Rileggendo la narrazione di questa incredibile e inedita situazione però, qualche cosa bisognerebbe dirla. Sto parlando della narrazione, non della gestione. Ma le due cose non possono essere separate.

Se non è chiaro adesso a tutti l'impatto che ha la dimensione narrativa delle cose sulle cose stesse, allora non lo sarà mai. C'è un virus che moltiplica il virus ed è il racconto distorto, l'informazione che non contribuisce alla conoscenza, che la distorce, che la manipola. Non sto parlando tanto di fake news e affini, voglio proporvi una riflessione profonda sui media personali nella società della complessità in cui viviamo e sulla nostra incapacità di consapevolizzarci carnefici, di sentirsi responsabili.

Questa crisi la racconteremo ai nostri figli come una guerra. Ma in questa guerra contro un "nemico invisibile" noi siamo anche il megafono che ci invita a restare a casa, siamo giudici dei comportamenti altrui, assolviamo i nostri. Siamo soldati sul fronte delle nostre fragili vite familiari.

Sul mio profilo facebook ho criticato in parte l'ossessione dell'"andrà tutto bene": è un grido consolatorio? Vabbé urliamolo se ci fa bene, ma siamo sicuri che serva anche ad altro? Che ci renda responsabili di una crisi di cui siamo terribili complici?

Qualcuno si è risentito, altri hanno condiviso le mie ragioni. Non è questione di avere ragione o meno, il nodo cruciale è la grande rimozione che stiamo compiendo nonostante questa abbuffata di informazioni e di informazione (quella pubblica peraltro ben gestita da Governo, Protezione Civile, Istituzioni Sanitarie, con il grande neo dell'anticipo la sera di sabato 7 marzo del nuovo decreto ministeriale su cui dovrebbe essere fatta piena luce e sanzionati i responsabili).

Ma lo vedete che non c'è un equilibro in tutto questo? Passiamo dall'euforia del canto sui balconi al panico per aver toccato il pulsante dell'ascensore; passiamo dalla fobia di tutto ai giramenti di palle per vedere sfumate serate e vacanze, mentre la gente viene ammassata negli obitori.

Siamo concentrati su noi stessi, sulle nostre angosce (anche ingiustificate) e non ancora in grado di vedere la complessità sistemica di ciò che stiamo subendo. Quanto è stata forte la tentazione iniziale di sperare che questo brutto virus veramente si accanisse sugli anziani e i soggetti fragili. "Ah ma era già malato", "vabbé oncologico…", "dai immunodepresso…" "su, a 90 anni la sua vita se l'è fatta…", "vabbé, ma sarebbe morto comunque presto…".

Quanto ci faceva comodo sperare che il COVID-19 ammazzasse i morti come Dylan Dog fa con gli Zombie. Una cosa quasi fatta bene dai! Siamo stati dei grandi ipocriti a pensare tutto questo!

Quanto era consolatorio ripetersi che essendo in salute allora fossimo indenni. Quanto è triste leggere del quarantenne o trentenne in terapia intensiva "nonostante la giovane età". "Ah meno male i bimbi non vengono colpiti…". Ignoranti che siamo.

Le vittime, dove sono le vittime? Sono numeri, solo numeri. Duemila oggi, tremila domani. Sono invisibili, non vengono nemmeno sepolti né celebrati. Ma dove vengono ammucchiati? I familiari che soffrono per la morte dove li vediamo? Sui balconi? Questa grande scissione dovrebbe farci vergognare: ancora una volta è l'altro ad essere rimosso nella nostra folle pretesa di vivere a prescindere dall'altro.

Come quando muoiono in mare quelli che scappano dalla propria morte e noi ci rifiutiamo di ascoltare il grido di dolore. Dove siete scappati quando chiudeva tutto? Perché siete andati dove stavate meglio portando il virus in giro per l'Italia? Non vi sentite ridicoli? E soprattuto: il fatto che siamo "asintomatici" non ci fa pensare di avere una enorme responsabilità verso i più fragili?

Chi sono i più fragili? Gli anziani soli, chi sta dentro le strutture perché non ha una famiglia, i disabili (chi parla delle persone con disabilità?), i malati, i senza tetto, le prostitute, i poveri, chi non ha mezzi sufficienti per andare avanti.

La verità è che ci fa comodo pensare che siano morti i già cadaveri, i fragili, i vulnerabili, che possano morire quelli che non restano a casa perché non hanno una casa. Ci sono le prostitute in giro che ancora lavorano e i clienti chi sono? Non siamo noi "asintomatici?".

La verità è che questa epocale botta alla nostra società ha scoperto il nervo più nascosto e doloroso di tutti: che non siamo in grado di maneggiare la fragilità, che gli invisibili ci fanno paura perché a volerli guardare ci metterebbero in discussione, mentre non ci pensiamo nemmeno a considerare che la responsabilità di ciò che accade all'amico fragile sia anche nostra. Invece è proprio così, ed è sempre stato così, non solo adesso.

Se lo impareremo potremo dire di aver appreso la lezione del Covid-19 con il suo doloroso e costosissimo prezzo di morte da pagare. Altrimenti resteremo nella nostra epocale illusione, rinchiusi in castelli di ipocrite certezze.

Sperando che il prossimo virus non ci incontri fragili e già morti.

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