Non profit

Ci metto… la voce

Pasquale Di Molfetta detto Linus, 53 anni, 35 dei quali passati a parlare in un microfono si racconta

di Paolo Madeddu

Non è immediatamente associabile alla categoria dei ?buonisti?. E non è mai approdato alla celebrità televisiva come certi suoi compagni di radio.

Però, chi è incaricato di convincere la gente a dare qualcosa di sé per una buona causa, spesso al momento di cercare un testimonial, un volto per i manifesti o per gli spot, pensa a lui, Pasquale Di Molfetta detto Linus, 53 anni, 35 dei quali passati a parlare in un microfono. È il ?capo? di Radio DeeJay, l’emittente privata più ascoltata in Italia. Ha una voce che piace e convince. E, a quanto pare, anche la sua faccia è convincente.

Sei uno dei testimonial più ricercati per le campagne di sensibilizzazione.

Sei così buono?

Beh, se sono buono ?di cuore?, non lo so. So sicuro di una cosa: non amo mostrarmi buono. Per esempio, ho accettato di fare la campagna per la sicurezza stradale perché mi piaceva l’immagine che mi veniva proposta. Quando mi hanno spiegato che tipo di foto mi avrebbero fatto mi hanno detto: «Dovresti fare la faccia incazzata». E mi è piaciuto! Forse proprio per la paura di mostrarmi buono.

Anche perché poi se ti mostri buono, ti tocca esserlo davvero. E se la gente ti becca in un brutto momento?

Ci rimane doppiamente male e scrive su Facebook: «Linus fa il buono ma l’ho incontrato, nella realtà è uno stronzo». Io alla necessità di guidare con prudenza ci credo davvero, ma ora per esempio mi sento schiavo di quella campagna, mi comporto come se la gente mi stesse guardando in ogni momento, e come se fossi tenuto a essere sempre essere il perfetto automobilista.

Il che, nella vita reale, è quasi impossibile: nel traffico cittadino ogni tanto devi darti una mossa. Però se dall’altra macchina mi guardano male, io subito penso che mi abbiano riconosciuto. «Guarda guarda, fa il moralista ma poi…». Ah, è un incubo!

Però ti sei prestato per parecchie iniziative…

Forse troppe. Io cerco di trovare un equilibrio tra una disponibilità che mi verrebbe spontanea ogni volta che mi viene chiesta, e la consapevolezza che non di rado si tratta di iniziative inutili o controproducenti. Parlando proprio della campagna per la sicurezza stradale, ecco, questo è un argomento difficilissimo, perché so per esperienza quanto sia difficile dare consigli ai ragazzi su come comportarsi. Rischi sempre di fare la figura del vecchio trombone, una parte che non mi piace. E poi, i ragazzi non vogliono ?consigli?.

Cosa vogliono?

Degli esempi da seguire. Se gli fai capire che la tua vita è divertente anche senza certe forme esasperate di trasgressione, ecco, quello è un buon esempio. Invece alzare il ditino e dire: «Guarda che bere fa male, guarda che drogarsi fa male, vai piano in macchina…» finisce per ricordargli un atteggiamento dei genitori che evidentemente non ha funzionato. Altrimenti non ci sarebbe bisogno di una campagna. Se un ragazzo ha comportamenti a rischio è perché ancora non ha risolto i suoi conflitti interni o familiari, quindi è un autogol chiamare un personaggio pubblico perché si sostituisca ai genitori o al fratello maggiore.

È facile pensare che la tua popolarità e la tua forza come ?comunicatore? portino a richieste pressoché quotidiane.

Se vuoi, ti mostro l’agenda: ecco, guarda caso, oggi è venerdì, lunedì giro uno spot per la Lega italiana per la Lotta contro i tumori, serve per una loro convention interna, lo faccio volentieri.

Non ci sono cose che non faccio volentieri, però se dicessi sempre sì sarebbe un problema per me e per la trasmissione che conduco, perché se dedicassi ancora più tempo alla gente che ha bisogno di una mano e magari ne parlassi in trasmissione, ucciderei il motivo per cui la gente mi chiede aiuto, creerei un cortocircuito. Non è cinismo, è realismo: se io e Nicola Savino raccontassimo per radio di sofferenze invece che divertire la gente, non saremmo altrettanto utili, quindi dobbiamo trovare un equilibrio: rimanere simpatici e familiari e poi, ogni tanto, dare un pezzo di quello che abbiamo costruito.

Come fai a scegliere?

Intanto, primo criterio, queste cose si fanno gratis. Perlomeno io. E anche se purtroppo, magari, nel grande mare della solidarietà c’è qualcuno che se ne approfitta, non ci devi pensare, e ti devi fidare. Così, quando persone che conoscevo e di cui mi fidavo molto mi hanno parlato per esempio del lavoro che fanno i volontari di Dynamo Camp, mi hanno convinto. È un’organizzazione trasparente, e sono sicuro che tutti i soldi vanno dove devono andare.

Vai a verificare di persona quello che fanno, per esempio nel caso di Dynamo?

Ogni estate vado a vedere il posto dove i bambini vengono portati in vacanza, in cima all’Abetone.

Un luogo meraviglioso. Arrivarci è faticoso, ma quando arrivo vengo ripagato sia dal vedere i frutti del lavoro dell’organizzazione, che dalla bellezza del posto.

Prima, nella tua carriera di testimonial, avevi visto cose che avresti preferito non vedere?

Purtroppo sì. L’esempio classico è quello delle partite di calcio per beneficenza. Non parlo della Nazionale cantanti, che è al di sopra di ogni sospetto. Ma in passato ci sono state situazioni tristi. La faccia buona della medaglia era sempre quella di chi andava a giocare. Certo, magari qualcuno lo faceva per il piacere di giocare all’Olimpico o a San Siro più che per la beneficenza, ma in fondo non c’è niente di male: il ?vip? si diverte, la cosa torna utile, non ci si può lamentare.

Piuttosto, intorno a questi eventi si era creato un sottobosco di personaggi, specie a livello locale, che usavano queste iniziative per interesse, economico o politico. Però credo anche che quell’epoca sia finita, oggi il mondo del non profit è un mondo evoluto.

La solidarietà migliora anche l’immagine pubblica. Secondo te ci sono anche celebrità che fanno i testimonial per questo?

In linea di massima non credo, perché l’impegno che ti chiedono certe iniziative è superiore al ritorno di immagine che si può avere. Mi viene in mente quando Gianni Morandi faceva le maratone, e tanti runner ?duri e puri? lo guardavano di traverso, mugugnando: «Ma perché questo viene qui ad approfittare della visibilità del mio mondo?». Era una cattiveria gratuita, perché in fin dei conti a uno come Morandi chi glielo fa fare di ammazzarsi di fatica? Oppure, prendiamo proprio Dynamo Camp. A fondare il primo camp, in America, fu Paul Newman nel 1988….

D’accordo, è chiaro dove vuoi arrivare. Nel 1988 Paul Newman era già una leggenda.

E non aveva nessunissimo bisogno di un rilancio di immagine, poteva permettersi di fare ciò che voleva. Ed è appunto ciò che ha fatto, usando i suoi soldi e la sua visibilità per rendere possibili queste vacanze terapeutiche gratuite per bambini e ragazzi malati. Ora, io non ho certo la popolarità di Paul Newman e non sono una leggenda, però nel mio piccolo non sento la necessità di un ?rilancio?. E, comunque, penso che per la mia ?immagine?, eventualmente, parli molto di più il mio lavoro che non il contributo che cerco di dare per le buone cause. Penso sia solo antipatico fare dietrologie. È vero che ci sono alcune iniziative benefiche un po’ fighette ed esclusive, quindi il fatto che qualcuno aderisca perché ?fa immagine? può essere un po’ discutibile.

Ma se il fine giustifica i mezzi, è accettabile anche quello. E perdono chi lo fa, perché sono talmente buono…


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