Cultura

Chiudiamo le “war room”

di Maria Laura Conte

“Trincea” è una delle parole più logorate dall’uso dei titolisti nelle ultime settimane. Si accompagna a espressioni come “siamo in guerra” (usata da Macron, tra gli altri), “bollettino dei caduti”, “armarci contro il nemico” o “war room”, per definire i comitati di gestione della crisi. Fino all’orgogliosa frase “il mondo è in guerra contro un nemico nascosto. Ma noi vinceremo”, pronunciata da Trump.

Un lessico di guerra si è imposto nella narrazione del tempo che viviamo, chiamato “surreale” da molti, ma al contrario molto reale. Così reale da risultare incredibile e aver bisogno della lingua più sanguinosa per essere detto. Come appunto quella delle cronache di guerra, che abitano gli incubi di tutti. Chi non ha provato l’acuto desiderio di svegliarsi una mattina scoprendo che questa del Covid-19 era solo materia di un brutto sogno? Invece persiste ostinata, anche quando apriamo gli occhi.

Solo che tale linguaggio bellico, all’inizio quasi istintivo, ora rischia di farci deragliare. Perché lascia intendere che il virus è il nemico, ma che anche gli altri intorno, potenziali untori, sono nemici. Così la solidarietà cede il passo all’assetto di difesa e, ancora peggio, di attacco. Non solo tra le singole persone, ma anche tra le comunità, tra paesi diversi.

I paesi europei che litigano sulle misure economiche adeguate a sostenere l’uscita dalla crisi non si propongono come quelle potenze antagoniste che non arrivano ad accordarsi su un cessate il fuoco? I confini stessi diventano le trincee di cui sopra, dove infilarsi per nascondersi dai colpi ostili. Si cade nella tentazione di scriversi leggi proprie di fronte a una stessa crisi globale, perché la presunzione di saperne di più dell’altro vince sulla disponibilità a collaborare, a chinarsi su misure comuni.

Usare questa narrazione sa alimentare un clima che può arrivare a giustificare opzioni autoritarie, quasi che un uomo forte al comando, solo lui, potrà guidarci alla vittoria finale.

In questo quadro anche virologi e statistici pagano un prezzo, figurando come generali in avamposti isolati: che non offrano certezze è un dato, sono scienziati non maghi, ma ciascuno avanza il suo algoritmo, la sua analisi dei dati come la più aderente alla verità, creando frammentazione.

Se si inietta nel corpo sociale il veleno del “nemico tra noi”, è difficile poi attivare le difese immunitarie e disintossicarlo. Chiede tempi molto lunghi.

Quindi proviamo a cambiare parole per descrivere questo tempo. Torniamo al fatto in sé. Il virus non è buono né cattivo, vigliacco sì, ma è un virus. Causa patologie che vanno curate. Proviamo a usare le parole della cura: ogni professionista torni a fare il suo mestiere di concerto con gli altri. La complessità per essere affrontata chiede interdisciplinarietà, collaborazione, possibile là dove si tiene presente che si devono curare persone malate e salvaguardare tutte le altre. Tutte. Non combattere.

Questa è la posizione generatrice di responsabilità, di uno verso l’altro. Quella responsabilità che serve per guarirci ora, per far ripartire l’economia in modo equo poi, e riaggiustare i legami comunitari. Molto di più dei soldati in assetto di guerra, sulle strade, come fossero a caccia di terroristi.

Il linguaggio della guerra instilla ansia. Quello della cura costringe ad allargare lo sguardo, apre all’amicizia civica, aiuta a riconoscere la natura umana in tutta la sua fragilità e intelligenza, e ad accogliere il posto della morte nell’equilibrio della vita. Riducendo il bisogno di ansiolitico.

Macron- son premier discours sur la «guerre» contre le virus avait été martial jusqu'à l'excès. Un mois plus tard, le président français qui rêvait de «transformer» son pays cherche un nouveau contrat de confiance avec ses concitoyens

Le Monde

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