Le parole, si sa, sono importanti. Lo urlava anche Nanni Moretti in un film che tutti citano ma che in pochi hanno visto davvero. Eppure, nonostante questa consapevolezza, le abbiamo abusate. Abbiamo calpestato le parole. Le abbiamo private del loro valore solo per adattarle alla contemporaneità, riempiendole così di nuovi significati non sempre coerenti.
Mai avrei pensato di sentirmi a disagio parlando degli amici. Eppure l'imbarazzo è commisurato alla necessità di aggiungere sempre una preposizione per specificare quali sono gli amici "di vita" e quali quelli "di facebook". Inoltre c'è stato un tempo in cui le cose che mi piacevano erano quelle che realmente mi garbavano, non un bottone che manifestava il consenso trasmettendo un messaggio del tipo "Ok amico, ci sono. Ti ho visto, ora guardami anche te".
Parlo di un tempo in cui dare il proprio cuore significava emozionarsi, donarsi e condividere con intimità. Non aumentare l'engagment (ah, gli anglicismi!) di una foto sovraccarica di filtri. Tutti richiami a quei cattivoni dei social network, penserete voi. E invece no. Quelli non sono altro che contenitori che utilizziamo come specchio per riflettere noi stessi. Altri esempi si sprecherebbero, a cominciare dal sostantivo volontario che trova una nuova casa nella formazione militare e nel reclutamento (quest'anno, ad esempio, l'esercito apre le porte a ottomila nuovi "volontari"). La lista è lunga. Anzi, lunghissima.
Scorrendola con attenzione scopriremmo anche quanto sia coinvolto il gioco. Il dannato e benedetto gioco. Quello d'azzardo, in crescita esponenziale, non ha solo aumentato la spesa (di gran lunga superiore ai 100 miliardi l'anno), ma anche le dipendenze. La stima di giocatori si aggira attorno ai 45 milioni di persone, con una media pro capite di 2.200 euro a testa. Certo, non tutti sono dipendenti dalla malattia del gioco. Resta il fatto che, nonostante gli sforzi di associazioni e aziende sanitarie, solo una minima parte si rivolge ai servizi per le tossicodipendenze.
La chiamano ludopatia, che la Treccani definisce come "dipendenza patologica dai giochi elettronici o d’azzardo". Un sostantivo banalmente tradotto e interpretato come la malattia del gioco. Una demonizzazione della parola che, a ben vedere, nella sua rappresentanza simbolica assume anche una profonda valenza educativa che appare determinante nel processo di evoluzione dall'infanzia all'età adulta.
Insomma, i bambini giocano. Com'è giusto che sia. Ne hanno diritto. Per dirlo non occorre scomodare pedagogisti, sociologi o antropologi. Il gioco è divertimento e, assecondando la sua natura, assume fin dall'infanzia un ruolo educante.
Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio la guerra.(Promemoria, Gianni Rodari)
Tutt'alta faccenda è l'azzardo. Ecco perché la malattia del gioco dovrebbe trovare nuove definizioni.
Quindi chiamiamola azzardopatia, non ludopatia.
Perché non sono affetti da ludopatia i bambini, il cui diritto al gioco, così fondamentale per lo sviluppo e la formazione della loro identità, è riconosciuto anche dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e l’adolescenza approvata dall’Onu nel 1989, secondo la quale gli Stati "riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica". Una risposta culturale in tal senso, non molto tempo fa, è arrivata dalla città di Livorno che, come molte altre, promuove la lotta all'azzardo con progetti nelle scuole. Uno di questi era "Gioco scaccia gioco, scacchi e dama contro la ludopatia". D'accordo, la parola sopravvive anche nel titolo.
Ma il senso è piuttosto chiaro: non tutti i giochi vengono per nuocere.
E non sono affetti da ludopatia neppure gli adulti, che giocano non solo per il proprio divertimento ma anche per favorire socializzazione e inclusione. No, non parlo di poker on-line. Per capire meglio la dimensione, la funzione e gli effetti del gioco in età adulta possiamo prendere ad esempio un evento popolare (e internazionale) come Lucca Comics & Games. Una manifestazione che ogni anno, nei cinque giorni di festival, conta migliaia di eventi, circa mezzo milione di presenze e un indotto economico che ha raggiunto – e forse superato – i 56 milioni di euro. Così tante persone in una piccola città. Una concentrazione che mette a dura prova l'ordine pubblico. Eppure, come accade ogni anno da mezzo secolo a questa parte, non ci sono furti o aggressioni. Nessun litigio in coda, sia in stazione sia alle biglietterie. Nessun automobilista attaccato al clacson con occhi iniettati di sangue. All'ingresso dei padiglioni, sugli scalini delle chiese o di fronte a bar e negozi di alimentari la gente non sgomita né cerca furbescamente di scalare posizione. «Grazie, prego, si accomodi, prima lei, ci mancherebbe». Il popolo di Lucca Comics è gentile, educato, sorridente. Anzi, come si dice da queste parti è perfino garbato. È felice di essere dove si trova e per questo non sente il peso del tempo che scorre. Se potesse lo rallenterebbe, il tempo. Nei momenti di attesa e nelle pause socializza e costruisce nuove amicizie.
Ma il popolo di Lucca Comics è anche un popolo di giocatori. Così, mentre ovunque si cerca di combattere contro quella che erroneamente viene definita ludopatia, a Lucca tutti giocano. Ovunque. Certo, non digitando sulle slot o scorticando con una monetina un biglietto gratta e vinci. Qua il gioco esiste ed è intelligente. Un contesto nel quale, non a caso, è stato presentato il nuovo "Game Science Center" creato dalla società Lucca Crea e dalla Scuola Imt. L'obiettivo, s'intuisce già dal nome che gli è stato dato, è di coordinare le attività di ricerca nazionali e internazionali in cui è presente il tema del gioco.
Ecco che, ancora una volta, ci troviamo di fronte alla necessità di specificare. Il gioco non è più solo un gioco. Ma è un gioco intelligente o di società. Quindi, se possibile, quando parliamo dei miliardi spesi in slot e gratta e vinci, etichettando il fenomeno che spinge alla dipendenza e alla povertà cerchiamo di utilizzare il sostantivo "azzardopatia".
[Photocredits Lucca Comics & Games]
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