Famiglia

Chi non vuole venire? Vado a prenderlo a casa

Lezioni col progetto «Chance» a Napoli

di Redazione

«Quante cose abbiamo capito guardando certe camerette», rivela Fiorella Picecchi. «Anche perché
le famiglie quando capiscono che c’è un reale interesse alla vita dei loro figli cominciano a collaborare»Fiorella Picecchi è a un passo dalla pensione. Ha visto nascere «Chance», la scuola dell’ultima possibilità, nella sua Napoli. Quella attraverso cui 300 ragazzi ogni anno arrivano alla licenza media e approdano alle superiori. «Parliamo di giovani che hanno rotto i ponti con le istituzioni, che la scuola dell’obbligo considera irrecuperabili». I professori di «Chance» invece no. Nel modulo di San Giovanni a Teduccio, la prof Picecchi ha lavorato fin dall’inizio. «Conosco bene la gente di qui, le dinamiche familiari e l’antropologia del quartiere», racconta. Quando il fondatore di «Chance», il maestro Cesare Moreno, l’ha chiamata a far parte del progetto, non ha avuto dubbi.
«Il primo passo, con questi ragazzi, è la riconciliazione», spiega. La qual cosa significa anche andare a prenderli casa per casa. «È molto più facile di quello che si può pensare, sa? Pensi a una professoressa che entra in un appartamento, visita la famiglia, prende un caffè con la mamma, guarda la stanza dello studente. Quante cose abbiamo capito guardando certe camerette! Per la prima volta queste famiglie si sentono accolte come persone, non come categoria. Dentro “Chance” c’è un reale interesse alla vita dei loro figli, allora le cose cominciano a funzionare».
Tra successi e cocenti delusioni. «Nei primi anni avevamo l’entusiasmo dei pionieri, ci sentivamo onnipotenti e le sconfitte erano terribili. So di aver fatto anche degli errori, come legarmi troppo a certe storie. Una ragazza mi disse che ero la sua seconda mamma. E allora ho capito che stavo sbagliando. Adesso riesco a mettere la giusta distanza». Ma non è facile. I professori di «Chance» si rapportano a un team di psicologi. «La chiamo la mia “manutenzione” quindicinale», spiega la Picecchi. «È dura ma è anche bellissimo. Vuole mettere la differenza con una scuola normale, in cui hai tre classi, 100 ragazzi, e finisci per non conoscerne bene nemmeno uno e non vedere l’ora di aver finito le tue ore?». Non ci sono gabbie né standard, a «Chance». Ogni traguardo è personalizzato. «Lavoriamo continuamente aggrappati all’idea di una riduzione del danno: sappiamo che, senza questa esperienza, per loro ci sarebbero state scelte più radicali, l’emarginazione totale. Lavoriamo sulla concretezza: sanno a stento leggere, è impensabile recuperare tre anni di storia». E in pensione, che fa, lascia tutto? «Adesso spero di insegnare ai professori di domani che non bisogna mai dimenticare l’accoglienza. E che nessuno merita di essere lasciato indietro».


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