Non profit

Chi (non) monitora chi

Possibile, quindi, che l’unico monitoraggio ai progetti sociali debba arrivare ogni volta dalla magistratura? E allora da chi? Dagli operatori sociali, continuamente sotto ricatto per la loro condizione di precarietà? Dall’opinione pubblica, che, ad esempio nel caso dell’accoglienza di richiedenti asilo, al momento chiuderebbe anche i centri più efficienti e virtuosi (che sono sicuramente la maggioranza)? Dai media, impegnati a bombardarci con la “invasione dei profughi”?

di Marco Ehlardo

Nella mia lunga esperienza avrò scritto decine di progetti, in massima parte per bandi di amministrazioni pubbliche. E altrettanti ne avrò letti tra quelli proposti da altri.

Negli anni le richieste contenute nei bandi si sono fatte progressivamente più stringenti. Obiettivi del progetto, risultati attesi, sostenibilità del progetto, replicabilità, innovatività, etc etc. Più le richieste si facevano complesse più i progetti divenivano, sulla carta, qualcosa di strabiliante. Spesso, a leggerli o rileggerli, sembrava si fosse tutti capaci di creare il socialismo in una città sola, piuttosto che in un Paese solo! Ma tutto ciò, e tutto sommato, ci poteva anche stare.

Quello che mi sorprendeva sempre era che, alla fine delle attività progettuali, non c’era mai nessuno che mi chiedesse “beh, alla fine di tutto quello che avete scritto nel progetto cosa avete fatto? E se non lo avete fatto perché?”.

Anzi. Poteva accadere (in realtà spesso, se non quasi sempre) che le attività ed i risultati previsti rimanessero sulla carta.

In questi casi, in un Paese normale, dovrebbero accadere tre cose:

  1. una contestazione da parte dell’ente finanziatore;
  2. un taglio del finanziamento sulla base di attività non realizzate o obiettivi non raggiunti (tutelando sempre, però, i diritti dei lavoratori);
  3. la revoca del servizio, nel caso il bando prevedesse la gestione di servizi pubblici.

Niente di tutto questo. Nessuno chiede niente, ergo nessuno ti contesta niente.

Anzi. Facciamo il caso di un servizio gestito da un’associazione o una cooperativa; si rimette a bando il servizio per la continuazione delle attività, e cosa succede? Che l’organizzazione che lo ha gestito, magari in maniera inefficace, si vede assegnare paradossalmente punteggi maggiori in virtù della “esperienza pregressa”. E rivince regolarmente il bando.

Morale: hai fatto male, allora noi ti premiamo!

Questa continua ad essere una prassi consolidata molto spesso e in molte parti d’Italia. Non è un caso se l’Unione Europea ci bacchetta continuamente sul fatto che non monitoriamo efficacemente i progetti realizzati con risorse europee.

Mi aspetterei analoghe prese di posizione da parte delle istituzioni italiane a tutti i livelli, quando i finanziamenti sono nazionali o locali. Utopia.

Facciamo un esempio pratico.

Immaginiamo una rete nazionale di servizi, affidata da un ente centrale ai Comuni, che a loro volta li affidano ad organizzazioni del terzo settore locale. Immaginiamo che l’ente gestore sia inadempiente su alcuni fronti.

Ad esempio non realizzi le attività come previste; e/o non paghi agli operatori stipendi e contributi, o lo faccia in maniera parziale intascando la differenza (prassi più diffusa di quanto si pensi); e/o magari abbia persino vertenze legali con gli operatori; e/o subappalti parte delle attività, pagando alla seconda organizzazione meno di quanto previsto e intascando, anche in questo caso, la differenza (cosa che, direi, non sarebbe difficile da controllare).

Se la catena di monitoraggio funzionasse, sarebbe già il Comune a intervenire. Non lo fa; magari, come succede, i legami politici e le amicizie fanno chiudere più di un occhio.

Allora dovrebbe intervenire la struttura di coordinamento nazionale. Non lo fa neanche lei. Perché? Più difficile da trovare una spiegazione. Delle due l’una: o vedono e fanno finta di non vedere, o non vedono. E la seconda possibilità, a mio parere, è persino più grave della prima.

Infine, le strutture di coordinamento in genere fanno capo ad altro ente, ad esempio un ministero. Ma anche lì tabula rasa.

Non è un esempio tanto lontano dalla realtà. Anzi.

Lo scandalo Mafia Capitale ne è un esempio lampante. La cooperativa al centro dello scandalo gestiva centinaia di posti per richiedenti asilo e rifugiati facenti capo allo SPRAR.

Il che significa che la catena di monitoraggio, in questo caso, era Comune di Roma (e Prefettura) – SPRAR (e dunque anche ANCI) – Ministero dell’Interno, esattamente come sopra.

Se non hanno visto niente in una caso così numericamente grande (e quindi decisamente più visibile) la vedo difficile che possano vedere qualcosa che accada nei meandri della rete a livelli più piccoli.

Possibile, quindi, che l’unico monitoraggio debba arrivare ogni volta dalla magistratura? Francamente no, e nemmeno me lo auguro.

E allora da chi? Dagli operatori sociali, continuamente sotto ricatto per la loro condizione di precarietà (della serie “se mi denunci non lavorerai mai più da nessuna parte”)? Dall’opinione pubblica, che, ad esempio nel caso dell’accoglienza di richiedenti asilo, al momento chiuderebbe anche i centri più efficienti e virtuosi (che sono sicuramente la maggioranza)? Dai media, impegnati a bombardarci con la “invasione dei profughi”?

Non resta soluzione se non rendere efficace la catena di monitoraggio preesistente.

Cominciando da chi deve essere monitorato, dal terzo settore, che deve dotarsi di strumenti di seria autovalutazione, di forte trasparenza, di reale partecipazione degli operatori sociali alla gestione ed al controllo delle attività.

Perché se si ha sinceramente a cuore la tutela dei diritti, se si vuole davvero un welfare diffuso ed efficace, se (nel caso di attività con i migranti) ci si definisce “antirazzisti”, il terzo settore deve mettere definitivamente al bando certe pratiche ed una diffusa omertà.

Altrimenti si diventa involontari complici di chi, in questo momento, ha gioco facile a farne speculazioni elettorali, o di chi da anni anela a sostituire al privato sociale il privato tout court.

Marco Ehlardo (Napoli, 4 febbraio 1969) ha lavorato per oltre dieci anni a Napoli in servizi per migranti, coordinando un programma di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo. Dal 2011 ricopre il ruolo di Referente per la Campania di ActionAid Italia. Di recente è uscito per la Edizioni Spartaco il suo primo libro Terzo settore in fondo: cronistoria semiseria di un operatore sociale precario.

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