Non c’è solo l’insegnante di sostegno a garantire il processo di inclusione scolastica degli alunni disabili. Troppo a lungo il dibattito politico e sindacale si è concentrato su questa figura, senz’altro centrale nel nostro ordinamento, ma che da sola non basta. C’è una progressiva assuefazione delle famiglie all’idea di dover affrontare ogni volta un percorso a ostacoli per rimuovere le tante barriere amministrative, burocratiche, organizzative, che spesso svuotano di significato quell’obiettivo, ribadito sempre con grande eloquenza nelle circolari e nei provvedimenti ministeriali, del diritto all’integrazione scolastica. Le cronache di questi giorni, fra le pieghe amare delle informazioni sulle conseguenze della manovra finanziaria del governo, ci consegnano un quadro assai poco confortante. Molto spesso, infatti, si delinea un rimpallo di responsabilità amministrativa fra enti diversi, i Comuni e le Province, ad esempio, rispetto ai costi da sostenere per i servizi di supporto, come il trasporto scolastico o l’assistenza personale. Il motivo di questo scaricabarile è evidente: i Comuni, specie quelli di piccole dimensioni, non ce la possono fare a garantire come in passato neppure l’anticipo di spese che dovrebbero entrare nel bilancio (per le scuole superiori, ad esempio) delle Province. Le Province, a loro volta, tentano di dilazionare le risposte. Lo scambio fra le burocrazie si completa grazie alla triangolazione con le autorità scolastiche che dovrebbero presidiare il servizio.
A ciò si aggiungono, ovviamente, le prese di posizione di comitati di genitori e di associazioni territoriali. Molto spesso ci si affida alle vie legali, e si attendono pronunciamenti della magistratura, che puntualmente arrivano dando ragione alle associazioni e alle famiglie e imponendo la fornitura dei servizi previsti dalla legge. Ma i tempi della giustizia, anche quando sono veloci, non corrispondono alle esigenze di chiarezza e di serenità dell’intero mondo della scuola e infatti il tutto contribuisce a creare una situazione endemica di malessere, di incertezza e di sfiducia, che si ripercuote, prima di tutto, sui genitori, che sempre più spesso prendono in esame l’ipotesi estrema: tenere a casa, magari per alcuni periodi, i propri figli con disabilità, oppure cercare alternative separate, quelle scuole “speciali” cancellate sulla carta, ma che di fatto esistono e non sono mai scomparse, magari mimetizzate sotto nomi diversi.
Sullo sfondo si colloca il disagio, comprensibile, di tutti gli altri attori della scena scolastica. Gli insegnanti curricolari, i direttori didattici, i genitori degli alunni non disabili, che tendono, quasi inevitabilmente, a vivere l’inclusione scolastica come un “problema”, un “peso”, una “responsabilità”, un “rallentamento”. Di contro, si ipotizzano scenari di una riforma complessiva del meccanismo dell’integrazione scolastica che, al di là delle buone intenzioni, rischia di essere preda dei meccanismi perversi della riduzione di spesa.
Da una parte l’utopia di una scuola perfetta e inclusiva (basta leggere le circolari ministeriali per rendersene conto) e dall’altra la realtà segnalata da famiglie e operatori. Una distanza a volte surreale. Eppure sappiamo bene quanto sia importante, pedagogicamente, socialmente, umanamente, garantire il diritto alla scuola e all’istruzione. Non dimentichiamolo mai, neppure per stanchezza.
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