Su quale campo si gioca la partita dello sviluppo? E quale sarà il modello vincente per la ripresa? Non è facile rispondere a queste domande pressati da una crisi alla quale finora ci si è opposti soprattutto con misure emergenziali, non risconoscendo che quella in atto è una trasformazione strutturale che è un po’ decrescita (con buona pace dei critici) e un po’ (soprattutto) rigenerazione. Ma se si allarga lo sguardo appare chiaro che la governance del post crisi sarà esercitata dai soggetti in grado di organizzare la società imprenditoriale. L’Italia, ma non solo, è un paese dove l’imprenditorialità è sempre più diffusa. E l’impresa rappresenta – piaccia o meno – l’unico veicolo rimasto di trasformazione e di innovazione non solo in campo tecnologico ma anche sociale, oltre che, più prosaicamente, l’unica modalità per cercarsi, o meglio crearsi, un lavoro come ben descrive questo post di Dario di Vico.
Non è un caso che le principali forze economiche e sociali si stiano confrontando, tra la collaborazione e competizione, intorno alle soluzioni più efficaci per una società che pullula di imprenditorialità micro e individuale: secondo Eurostat il nostro è il paese europeo a più alta densità di microimprese che generano ben il 46% dell’occupazione non finanziaria. Si può discutere a lungo sull’origine di questo fenomeno, ma quel che conta sono le politiche. L’economia finanziaria è già all’opera, utilizzando i suoi considerevoli capitali per investire, con elevati rischi e rendimenti, su start-up d’impresa a elevato contenuto di innovazione, accelerandone la crescita, in particolare in alcuni comparti come le tecnologie dell’informazione e della conoscenza mediate dal web. Un fenomeno ben più ampio delle delle 1.500 startup innovative e della ancor più sparuta truppa (39) delle startup a vocazione sociale. Facciamole crescere prima di additarle come la next big thing della socialità d’impresa!
In ogni caso anche l’impresa sociale può (e deve) svolgere la sua parte aggregando in strutture collettive un’imprenditorialità che è sempre più pulviscolare e quindi esposta a consistenti rischi sociali. Perché mutualizzare l’imprenditorialità è un modo non solo per fare economie di scala, ma anche protezione sociale. Giocare un ruolo da big player nella società imprenditoriale richiede però di far partire un nuovo ciclo di vita dell’impresa sociale. La cooperazione sociale – l’impresa sociale originaria – ha ormai portato a maturazione un modello modello vincente che però è esposto a trasformazioni epocali dei suoi mercati e dei bisogni ai quali intende rispondere. D’altro canto sta ormai giungendo a massa critica una nuova ondata di imprenditorialità sociale che, per ragioni diverse, non utilizza questo modello giuridico – organizzativo e, soprattutto, fornisce nuovi prodotti / servizi a partire da differenti culture organizzative. Imprenditorialità sociale vecchia e nuova chiamata ad affrontare la sfida del cambiamento del welfare che passa per una riorganizzazione del lavoro e dei modelli di produzione dei servizi sociali, assistenziali, sanitari, ecc.
Qui sta la sfida della rigenerazione: serve infatti una strategia – incarnata da nuovi imprenditori sociali – che ricerchi in modo esplicito e senza veti ideologici una maggiore contaminazione tra modelli allo scopo di produrre, consapevolmente, innovazione, testandola in prototipi e scalandola ad ampio raggio. E’ una strada ricca, al contempo, di opportunità e di rischi. Se è vero infatti che l’economia mainstream sempre più attratta dal “sociale” rischiando di colonizzarlo, è altrettanto vero che una competenza autentica di co-operazione – ovvero di condividere mezzi e fini dell’azione – è la conditio sine qua per una produzione dove il valore sociale non è l’epigono ma il driver di quello economico.
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