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CheFare? Andare a Budapest…

L’associazione che lancia il bando per i migliori progetti di nuove imprese culturali ha scelto di scendere in campo e offrire un’auto ai migranti. Perché lo ha fatto? Risponde Bertram Nieesen uno dei fondatori

di Anna Spena

«A questo punto, c’è una decisione da prendere», scrive Valeria Verdolini nel lungo racconto "Dispacci dal confine. In viaggio da Vienna a Budapest" pubblicato sulla pagina di cheFare. CheFare è un’associazione culturale non-profit, una piattaforma che premia l’impatto sociale, segnalando e raccontando i progetti culturali ad alto grado di innovazione. «Partire alla volta di Vienna soli o non rendere il viaggio vano, assumendoci i rischi di questa ennesima disobbedienza civile?», si chiede Valeria che è una delle socie fondatrici di cheFare, è ricercatrice all'Università degli studi di Milano, attualmente anche presidente di Antigoni Lombardia.

Bertram Niessen, direttore scientifico di cheFare, spiega a Vita.it com'è nata l'idea di questo racconto e soprattutto del "viaggio" di Valeria insieme al corteo dei migranti che arriva fino ai confini tedeschi…

Quali sono i motivi che vi hanno portato Valeria a intraprendere questo viaggio?
La cosa è nata in modo molto semplice… Venerdì sera abbiamo iniziato a capire che qualcosa si stava muovendo. L'obiettivo che perseguiamo con cheFare è offrire una risposta concreta a tutte le iniziative che si generano dal basso. Valeria è partita nel giro di 12 ore. Quello che si legge adesso sul sito è in realtà una testimonianza a caldo; senza filtri. Quello che però realmente ci interessa è stimolare una riflessione sistemica sulla questione migranti e in modo particolari sulle possibili soluzioni che si possono generare dal basso.

In che senso?
Quello che ci interessa come attivisti e ricercatori è riflettere su che possibilità ci sono per attivare progetti virtuosi e capire poi come questi processi possano influenzare le decisioni politiche che non riguardano i singoli stati ma l'Europa intera.

Qual è il prossimo passo?
Fare una riflessione a freddo, più consapevole. Siamo ricercatori e ci interessano molto gli effetti specifici che può avere la digital social innovations su alcune questioni, tra cui quelle che riguardano la migrazione. Poi ci sono gli aspetti che riguardano i diritti umani e le diverse forme di attivismo.

Com'è cambiato l'attivismo dopo la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione?
Sono cambiate le forme di partecipazione tradizionali. Ma, molto sinceramente, io in primis e l'associazione non ci occupiamo di questione legate ai migranti. Quello che è chiaro è che bisogna rivedere tutto il sistema della definizione dello stato di profugo. In ogni caso la tecnologia ha il merito di dare grande visibilità; solo è importante sviluppare un giudizio critico non soffermarsi solo sulla singola foto che fa il giro del mondo. Bisogna andare a fondo dei problemi.

Sì ma come vi comporterete in merito?
Siamo curiosi di sapere cosa ci racconterà Valeria che attualmente si è fermata a Vienna. Ci preme parecchio cercare di costruire una riflessione approfondita su cosa significhino realmente queste pratiche di attivazione. La prossima settimana metteremo insieme giuristi e massmediologi per costruire un dibattito che vada oltre il caso specifico.

Quando le nuove pratiche che si generano dal basso sono realmente efficaci?
Quando incontrano le istituzioni. Perché queste pratiche non possono sostituirsi a loro ma possono sicuramente indicare la strada.

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