Non profit

cheese, alla ribalta i formaggi d’alta quota

Nel 2009 la fiera di Slow Food è dedicata alla montagna

di Chiara Cantoni

Quando è nato, con certezza non lo ricorda nessuno; dove, con grande probabilità, sull’alpe Macagn, da cui ha preso il nome: a 2.188 metri d’altezza, ai piedi del Monterosa, fra il Biellese e la Valle d’Aosta. «Nei periodi estivi, lo portiamo giù dagli alpeggi a dorso di mulo. Proprio come una volta». Livio Garbaccio, della Cooperativa dei produttori del tradizionale formaggio Macagn Valli biellesi e Valsesia, alla cultura casearia di famiglia ci tiene. E il latte lo lavora come gli è stato insegnato da ragazzo: due volte al giorno, a ogni mungitura, aggiungendo il caglio quando è ancora caldo e ricco di enzimi. «Anche perché in giro», dice, «ci sono un sacco di imitazioni, prodotte con latte refrigerato, pastorizzato, e aggiunta postuma di fermenti. Ma il sapore non è lo stesso».
Pasta compatta, colore giallo paglierino, crosta sottile, questo tipico formaggio di latte crudo è fra i protagonisti della VII edizione di Cheese – Le forme del latte, la manifestazione biennale organizzata da Slow Food e Città di Bra (Cuneo), dal 18 al 21 settembre, dedicata alla filiera lattiero-casearia mondiale e alle produzioni artigianali di qualità: formaggi di nicchia, spesso in via di estinzione, legati al territorio e alle piccole economie locali, perciò non intercettati dai circuiti del commercio standard. Come, appunto, il Macagn tradizionale, tutelato da un presidio e un rigoroso disciplinare che garantisce la tracciabilità della filiera produttiva. O i formaggi d’area transfrontaliera, frutto di patrimoni ambientali e culturali unici: razze autoctone selezionate nei secoli per adattarsi al territorio, malghe e pascoli di alta montagna, savoir faire antichi. Dalla storica tuma di pecora delle Langhe alla brousse di capra del Rove, prodotta nei dipartimenti delle Bocche del Rodano e associata alla pratica ancestrale del pastoralismo.
O, ancora, come la robiola di Roccaverano, prodotta sulle colline incolte della Langa astigiana. «È l’unico caprino storico d’Italia, il solo in grado di competere con i celebri chèvres d’oltralpe», dicono dal presidio Slow Food, nato a tutela di alcuni piccoli allevatori-casari,come Massimo Trinchero, dell’azienda agricola bio Agrilanga, che lavora le robiole come 200 anni fa. «Il Roccaverano è l’unico caprino ad aver ottenuto la Dop, che ne ha istituzionalizzato il nome. Prima era formaggetta, e basta». La tecnica di produzione tradizionale varia, da produttore a produttore, per scarti minimi. Ma le differenze fra una robiola e l’altra sono rilevanti: i fiori, le erbe e la flora batterica dei pascoli si trasferiscono nel formaggio al punto che, come per i vini, è possibile definire una vera e propria mappa di cru.


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