Non profit

Che senso ha se ti salvi solo tu?

di Paolo Dell'Oca

Quando ero piccolo con i miei amici ci raccontavamo degli indovinelli che erano quasi dei casi investigativi, in cui uno descriveva una situazione e gli altri gli ponevano delle domande al riguardo; lui poteva rispondere, lapidario come un referendum costituzionale: “sì”, “no” o “non è rilevante”.

Uno di questi enigmi recitava: “Un uomo si lancia da un palazzo, sente un telefono squillare e urla «Nooo!»”.

E allora iniziava l'interrogatorio.

“L’uomo è italiano?”.

“Non è rilevante”.

“L’uomo conosce chi ha telefonato?”

“Non è rilevante”.

“L’uomo è caduto dalla finestra per sbaglio?”.

“No”.

“Qualcuno vede che lui sta volando giù?”.

“No”.

La soluzione era che quell’uomo al mattino si era svegliato e a casa sua non aveva trovato nessuno. Era sceso in strada e non c’era anima viva, e neanche nel suo ufficio. Allora ha deciso di buttarsi. Sentendo il telefono ha capito che al mondo c’era almeno un’altra persona (chi stava telefonando in quel momento), ma a quel punto era troppo tardi e ha gridato il suo rammarico.

Da ragazzini ci sembrava verosimile non tanto che quest’uomo si ritrovasse da solo sulla Terra, quanto che decidesse di buttarsi.

Che senso ha se ti salvi solo tu?

Il neonato è un esempio lampante di ciò: senza la madre non può sopravvivere e dipende da lei per mesi. Mamma e bambino. La comunità minima.

Tutti siamo figli, qualcuno anche genitore (sempre di meno, Ministra, sempre di meno), e mi strazia la lettura, tra le altre, di quel bambino siriano* morente che tenta di tranquillizzare il papà disperato: “Dirò a Dio quello che ci hanno fatto, gli dirò tutto”.

Nelle settimane che succedono al fertility day continuo a vivere il dramma dell’impotenza.

Sono impotente quando Mattia mi racconta della guerra civile a Giuba, di cui ero colpevolmente all'oscuro. Sono impotente quando un ragazzo, fuori dall'ufficio, mi domanda: “Se vi prendete cura di mamme e bambini potete aiutare mia mamma? Non riesce più a pagare l’affitto e le bollette”. Sono impotente quando una notte attraverso Piazza Duca d'Aosta, davanti alla Stazione Centrale, e vedo un ragazzo nordafricano infilatosi tra le sbarre di un temporary shop vuoto, senza pareti, raggomitolato su quel pavimento bianco, sorpreso dal freddo. Come in una gabbia.

Sono impotente quando vedo certi servizi di Gazebo (sempre lodato sia il grandissimo lavoro di Diego Bianchi, Marco Damilano e Makkox). Sono impotente quando l'ennesima, formidabile, inchiesta di Fabrizio Gatti fa capolino dal mio feed di Facebook.

Settimana scorsa abbiamo inaugurato CasArché: è stata una bella giornata, con i sindaci, il coffee break e l’Orchestra dei Popoli. Ho detto un po’ delle cose che avete letto sopra, e poi ho concluso con le cose che ho scritto sotto, in italic.

Le riporto perché credo possano essere valide per chi ogni giorno picchia la testa contro i muri per una lacrima di giustizia in più. Per fare proprie le parole seguenti, in una realtà come quella del Terzo Settore in cui proprie e altrui dovrebbero essere aggettivi superabili in molte circostanze, è sufficiente sostituire a #CasArché# il nome di un progetto sociale di cui si fa parte, e la relativa organizzazione non profit a #Arché#.

“CasArché non è la risposta alla domanda: «Che senso ha se ti salvi solo tu?».

CasArché è la domanda stessa.

Perché il modello di cittadinanza solidale che Arché propone deve educarci ad acquisire famigliarità con la complessità. E quando dico “noi” faccio riferimento a tutto il mondo di Arché: volontari, sostenitori, operatori, beneficiari; vogliamo abitare il sociale con convinzione e non per convenzione.

E, se CasArché è la domanda, ognuno di noi è chiamato a dare la sua risposta”.

Qual è la mia risposta?

Non è rilevante.

*Ad una ricerca minima la frase ricorre più volte nel web, pronunciata da bambini siriani e palestinesi, la fonte italiana più datata che ho trovato è Redattore Sociale.

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