Che ne resta di noi? è la domanda che mi sto facendo da tempo e che ho ritrovato in cartellone al teatro Argentina di Roma.
“Che ne resta di noi”, in scena il 12 luglio, è infatti anche il titolo di uno spettacolo senza parole con una domanda che incombe sul pubblico e sugli attori. Figure umane in perenne, inquieto movimento su una scalinata che non porta, in alto, ad alcun cielo. Che ne resta di loro, una volta sottratti la fame di sesso e potere, la solitudine che si riflette nella ripetizione ossessiva dei gesti, l’attaccamento disperato ad abitudini e oggetti? Che ne resta di noi che li osserviamo, quando si dissolve la presunzione di essere diversi da loro, migliori?
Una partitura fisica maturata durante un processo di improvvisazioni del gruppo di lavoro di Estia Teatro del Carcere di Bollate guidato dalla regista Michelina Capato della cooperativa sociale Estia, dalla coreografa Claudia Casolaro e dall’allenatrice del “senso teatrale” Matilde Facheris. «Il teatro, in carcere, mi ha salvato. Mi ha fatto incontrare persone che mi hanno aiutato a capire il vero significato della vita. Con il teatro mi sono realizzato, ho ritrovato me stesso e una nuova dimensione. Non vedo l’ora di andare a Roma mercoledì a calcare le scene … e sono più che certo che spaccheremo. Merda merda merda!»
Carletto, classe ’54, milanese doc, di giorno lavora nel Consorzio Viale dei Mille a Milano, il concept store che vende prodotti e servizi dell’economia carceraria favorendo un percorso di integrazione sociale, e di sera recita e si allena a teatro.
«Ho fatto 23 anni e mezzo di carcere in due tranche. Ma ora ho un lavoro e non penso più a delinquere. Semplice, no?! Sono stato dentro quattro anni in Brasile, a Rio de Janeiro, un vero schifo. Non avevamo letti, dormivamo per terra a turni, in un angolo c’era un buco per tutto e tutti. Di notte ritornava indietro l’inverosimile. Ero sposato e mia moglie veniva a trovarmi per non lasciarmi solo, ma doveva subire delle perquisizioni che solo una persona che ti ama da morire può accettarlo. Dopo il Brasile sono stato estradato in Italia, Porto Azzurro, Milano-Opera, altre carceri, Bollate. Ho fatto anche 6 anni di alta sicurezza. Ero giovane, avevo una violenza dentro che spaccava tutto. Più gli altri avevano paura di te, più ti sentivi rispettato e forte. Credevo di farcela sempre e che fosse giusto così. Poi, nel 2008, l’incontro con il teatro durante i laboratori in carcere di Michelina Capato che mi hanno tirato fuori dalla mentalità criminale. Mi hanno aperto la mente. E ora sono qui e ho anche un lavoro!»
Carlo è cresciuto alla Trecca (parola che deriva da tre ca’), i primi complessi popolari, le case minime di Milano che sono state sostituite con palazzoni senza balconi, nel quartiere Salomone, in zona Forlanini. Papà lavorava in fonderia e mamma faceva le pulizie. Una famiglia semplice, normale. Due sorelle. «Finita la terza media il papà se ne è andato di casa, a 16 anni sono diventato un vero delinquente, nessuno riusciva a fermarmi.» Anni balordi. Un sacco di botte. Violenza. Una vita a mille, ma fragile e oltre ogni limite. Un matrimonio, un figlio, un divorzio. «L’anno scorso ho ritrovato, dopo 36 anni, la mia fidanzatina di allora. Era bellissima e lo è ancora. Siamo ritornati insieme. L’amore è l’unica cosa importante della vita. Mi sgrida sempre. Vuole che righi dritto. E io lo faccio.»
Che ne resta di Carletto e della sua fidanzata? «Mesi fa, davanti a 130 persone durante una performance teatrale e le ho chiesto di sposarmi. Ha detto sì». Il teatro salva la vita e custodisce l’amore.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.