Mondo

Che ne è degli ostaggi?

«Quella di non dare risonanza internazionale ai rapimenti di operatori umanitari in Somalia è una scelta precisa della Farnesina» spiega a Vita Mario Raffaelli,

di Emanuela Citterio

Qual è la mossa vincente nel caso dei cooperanti rapiti in Somalia? Il totale silenzio oppure gli appelli di sostegno «per non dimenticarli»? A riaprire il dibattito oggi sul Corriere è Fulvia Paganini, la moglie di Giuliano, il cooperante del Cins rapito insieme a Iolanda Occhipinti e al collega somalo Yussuf Harale lo scorso 21 maggio vicino a Mogadiscio. «Il silenzio è necessario per riportarli a casa», afferma. In effetti, le trattative sono avvolte dal più stretto riserbo, e per i tre rapiti non ci sono state né fiaccolate, né marce né raccolte di firme. «Non è questo che chiediamo» conferma la moglie di Paganini, «solo un appoggio. Molti comuni, a partire da Milano appenderanno striscioni per mio marito e Iolanda. Ai media chiediamo solo di dare eco a questo appello. Per far sentire loro che non sono stati dimenticati».
«Il dubbio su qual è l’atteggiamento migliore, visto quello che sta accadendo in Somalia, attanaglia anche noi» confessa Giuliano Bortolotti, presidente di “Water for life” l’ong con sede a Bolzano per cui lavorano i quattro cooperanti somali rapiti il primo luglio sempre vicino a Mogadiscio, mentre stavano andando all’aeroporto per imbarcarsi per l’Italia dove  avrebbero dovuto ritirare il premio Alexander Langer. «Per ora abbiamo scelto di continuare a mantenere un basso profilo» afferma Bortolotti, «ma in questi casi non si sa mai quale sia la scelta più giusta».
Il silenzio avvolge i rapiti anche in Somalia. Il fondatore dell’ong Water for life, il geologo e sacerdote Elio Sommavilla, si trova a Nairobi, in Kenya, ed è in contatto continuo con le autorità italiane e con i referenti locali. Ma non è arrivata nessuna notizia. «Non una richiesta di riscatto, non un’informazione circa la salute dei nostri cooperanti somali rapiti, nessun contatto, niente» afferma desolato Bortolotti.

«Quella di non dare risonanza internazionale ai rapimenti di operatori umanitari in Somalia è una scelta precisa della Farnesina» conferma a Vita Mario Raffaelli, delegato speciale per la Somalia del governo italiano. Di recente c’è stata un’ondata di rapimenti e di uccisioni a Mogadiscio e dintorni che ha preso di mira gli operatori umanitari, sia delle Nazioni Unite che di organizzazioni non governative. C’è chi dice che a tenere la regia dei rapimenti siano le Corti islamiche, con l’obiettivo di fare pressioni perché l’esercito dell’Etiopia – che ha invaso il territorio somalo per supportare il governo di transizione contro le Corti – torni da dove è venuto. «In effetti prima c’erano episodi singoli, ora una campagna contro gli operatori umanitari su larga scala mai vista prima» ha detto a Vita Raffaelli.
Ci sono due date a partire dalle quali l’«ondata contro l’umanitario» si è intensificata: il primo maggio, giorno del raid condotto dagli Stati Uniti per uccidere un leader delle Corti islamiche, Aden Hashi Ayro, ritenuto da Washington un esponente di Al-Qaeda: gli americani hanno bombardato la palazzina stava dormendo a Dusa Mareb, nel centro della Somalia, con un razzo partito da una nave da guerra in navigazione nell’Oceano Indiano. E il 9 giugno, giorno in cui alcune figure di spicco dell’opposizione somala (il cosiddetto “Gruppo di Asmara”) sono scese a patti firmando firmato un accordo a Gibuti che prevede il cessate il fuoco e il dispiegamento entro 120 giorni di una “forza internazionale di stabilizzazione” sotto l’egida delle Nazioni Unite.


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