Cultura

Che gusto ha il futuro?

di Maria Laura Conte

Dobbiamo recuperare il gusto del futuro: sceglieva queste parole Draghi, pochi giorni fa, per incoraggiare il nostro Paese. E non è il solo che cerca di rimettere al centro la fiducia necessaria a disincagliarci dal presentismo. È come se la pandemia avesse accresciuto la nostra disaffezione al futuro, accelerando la perdita della capacità di pensarlo. Mentre, paradossalmente, il presente sembra diventato un posto sicuro, il tappeto sotto il quale nasconderci mentre consumiamo tempo, beni e affetti.

Lo hanno documentato etnografi di punta: le crisi gravi, con il loro carico di dolore e la minaccia pervasiva, infragiliscono l'abilità di progettare il domani e riducono il desiderio di viaggiare nello spazio o immaginarsi nel tempo futuro.

Meglio che il futuro continui il suo sonno giusto, profetizzava Kafka, perché se uno lo sveglia anzitempo, non è detto che giovi.

Ma tornando a Draghi, che gusto ha il futuro?

C’è un futuro che sa di sano: il tempo dei virus mutanti tutti sotto controllo e dei vaccini pronti a contrastare ogni variante, disponibili in grande quantità, baluardo di sicurezza per tutti.

Ci può bastare questo? No: se anche viene prima di tutto, la salute non è tutto quel che vogliamo.

C’è pure un futuro dal gusto “cash is king”, del re-denaro, che esce dai grafici degli economisti: dopo periodi di recessione si impongono le previsioni che annunciano botte di crescita improvvisa di lavoro, consumi, servizi, insomma PIL con segno +. Forse non saremo migliori, però per i più ottimisti avremo inventato nuovi modelli, un nuovo modo di fare impresa e di muovere positivamente i flussi economici.

E questo ci basta? Non suona un po’ troppo consumista? Alla prova dei fatti, siamo umani, non bancomat.

Viene avanti un altro futuro e ha il sapore di chiuso: è quello definito dal passato, senza scampo, come un destino definito dalle scelte compiute. Un “intrigo” intessuto nei giorni che ci lasciamo alle spalle, ora dopo ora, e che consegniamo al domani. Alla fine scopriremo come si scioglierà questo nodo, perché la storia è già scritta.

Questo gusto ci corrisponde? Non è troppo povero di sorpresa? Perchè noi dobbiamo fare i conti con un'altra dimensione che ci è propria, ed è molto resistente.

Si trova in un altro modo ancora di vedere il futuro, dal sapore fresco: è quello pensato come inizio, come inaugurazione. Come la prima di un concerto, la vernice di un’esposizione di inediti, l’incipit di un romanzo in via di stesura.

È l'attesa allo stato puro.

Tu che aspetti da fuori della casa, /della luce domestica/del giorno?/ Oggi, oggi che il vento/ balza, corre nell’allegria dei monti…

Mario Luzi

Per un futuro così vale perfino la pena uscire dai ripari, e spingersi avanti e su sentieri di creatività mai prima calpestati.

Per recuperarlo, occorre solo buttarsi in un rapporto amichevole con il tempo e con se stessi, non per restarci di nuovo incastrati, ma per aprirsi all'incontro, alla relazione. Non relazione intesa come categoria astratta, filosofica, ma come rapporto personale con gente di carne che abita il nostro vicinato. Questa confidenza gli antichi romani la chiamavano otium.

Qui inizia la progettazione del futuro: non tutto è un déjà vu, c'è margine di novità e di inizio. Senza ansia, senza pretesa. Nella curiosità di attendere un evento, una persona, che porti speranza.

Chissà, chissà domani
Su che cosa metteremo le mani
Se si potrà contare ancora le onde del mare
E alzare la testa

Lucio Dalla

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