Economia

Che futuro per il Social Investment?

Uno studio condotto da una società inglese di ricerca e consulenza sull’impact investing, EngagedX, ci offre qualche indicazione

di Monica Straniero

A sei anni dalla crisi economica che ha visto salire sul banco degli imputati i famosi derivati, si sta assistendo ad un processo di riabilitazione del ruolo della finanza con gli Investimenti a Impatto Sociale (SII). Parliamo di un’operazione intesa a dimostrare che in tempi in cui le risorse pubbliche destinate al sociale sono sempre più scarse, esiste una finanza “buona” e paziente capace di fornire inedite soluzioni a problemi socialmente rilevanti. Gli investimenti ad impatto consentono infatti di conciliare da un lato la realizzazione di programmi di interesse generale, dall’altro la remunerazione del capitale per gli investitori cosiddetti socialmente motivati. Insomma “fare del bene mentre si fa bene”.

Tutto è possibile, ma non mancano i rischi. Perché se questo tipo di operazione finanziaria vanta un indiscutibile fascino, rimane una questione di fondo. Come valutare l‘impatto di investimenti per cui il ritorno finanziario non è l'unico parametro che conta? In sostanza le progettazioni sociali funzionano, sono in grado di fare davvero la differenza e di garantire un ritorno economico? O rischiano di essere una moda che potrebbe portare a considerare il terzo settore come una nuova area alla quale estendere le aspettative di rendimento di un’economia finanziarizzata?

A parere della comunità scientifica ed economica internazionale una delle risposte è quella di individuare delle metriche standard, in grado di misurare la capacità delle imprese sociali di raggiungere gli obiettivi prefissati. Tuttavia in un mercato che è cresciuto significativamente nel corso degli ultimi 10 anni, ma ancora non ben delineato, persiste la difficoltà di reperire informazioni e dati necessari a costruire indicatori universalmente accettati e consentire ai potenziali investitori di confrontare le performance delle imprese del settore.

Un contributo in questa direzione arriva da uno studio pubblicato lo scorso giugno e condotto da una società inglese di ricerca e consulenza sull’impact investing, EngagedX, dal titolo: “The social investment market through a data lens. Revealing the costs and opportunities of financing the “unbankable”, commissionato dal Social Investment Research Coucil (SIRC) e da Royal Bank of Scotland, (RBS) e opportunamente rilanciato nel dibattito italiano alcuni giorni fa dal portale Secondo Welfare con un articolo di Giulio Pasi. L’obiettivo principale del progetto di ricerca è quello rafforzare la fiducia nel mercato degli investimenti sociali. Perché se da un lato gli investitori, a causa dell’elevata incertezza dei rendimenti finanziari, si mostrano diffidenti nel destinare capitali all’impact investing, dall’altro, uno dei problemi che gli investitori si trovano di fronte nel momento in cui valutano di allocare capitali in questo tipo di investimento, è la scarsa conoscenza della dimensione e delle dinamiche del mercato sociale. Con la conseguenza che i costi di valutazione per ogni investimento si rivelano particolarmente elevati.

Ferma restando la difficoltà di individuare chiaramente il rapporto causa-effetto tra l’investimento e i risultati, esiste quindi un mercato potenziale per l’impact investing? Per tentare di rispondere a questa domanda, lo studio sui dati messi a disposizione da tre importanti intermediari del mercato degli investimenti ad impatto sociale, ha selezionato un campione di investimenti prioritariamente orientati alla fornitura di capitali a favore di organizzazioni a finalità sociale, al di là della realizzazione di specifici rendimenti finanziari.

Con la conclusione che nel mercato generale degli investimenti, quelli ad impatto sociale sono caratterizzati da un elevato rischio mentre il ritorno finanziario complessivo del settore è risultato essere negativo del 9,2%. Una perdita netta che sembra ammettere l’esistenza di un trade off tra impatto sociale e rendimento finanziario per cui gli investitori socialmente motivati riconoscono la complessità dei problemi sottostanti e potrebbero essere disposti ad accettare uno sconto di capitale in nome di un possibile ritorno sociale. Come scritto da Giulio Pasi: “Sarebbe tuttavia ingenuo interpretare questo dato come negativo di per se stesso. Infatti, che gli intermediari siano stati in grado di raggiungere un tasso di conservazione del capitale di circa il 90% (dato comprensivo di pagamenti degli interessi e rimborsi del capitale) è un dato senza ombra di dubbio positivo. Questo elevato livello di tutela del capitale suggerisce che il mercato degli investimenti sociali è a tutti gli effetti investable.

Ma fine a che punto? Un’analisi comparativa tra il mercato dell’impact investing e il mercato del credito tradizionale dimostra che i rendimenti degli investimenti sociali sono “generalmente” paragonabili a quello di altri mercati caratterizzati da un profilo di rischio elevato. Pertanto lo sviluppo di track record significativo sulle prestazioni di tali operazioni da parte dei collocatori vorrebbe dire attenuare il grado di incertezza riguardo ai rendimenti finanziari di questo nuovo tipo di investimenti e semplificare diminuire il confronto tra le diversi asset class. Questo significa aiutare le imprese sociali ed enti di beneficienza a raccogliere capitali e gli investitori a comprendere meglio il rapporto rischio/rendimento, finanziario e sociale, delle nuove proposte di investimento.

A questo riguardo, lo studio chiama in causa gli intermediari che nel settore frammentato dell’impact investing, caratterizzato tra le altre cose da scarsa trasparenza e tanta confusione, diventa una figura chiave nella raccolta di dati utili a facilitare l’incontro tra domanda ed offerta. Un ruolo che se nell’ecosistema inglese degli investimenti di impatto è stato riconosciuto con la creazione della banca di investimento sociale, Big Society Capital, in Italia sono pochi gli intermediari con le competenze necessarie a offrire prodotti “impact” a chi vorrebbe investirvi. Questo implica la mancanza di un database longitudinale che permetta di valutare le effettive potenzialità di sviluppo di un mercato italiano dell’impact investing a supporto del Terzo Settore.

La ricerca, infatti, dimostra come nel nuovo mercato degli investimenti ad impatto sociale la figura dell’intermediario finanziario è una figura chiave e decisamente attiva, non solo nelle fasi iniziale e finale dell’investimento, ma anche lungo tutto il corso dell’operazione. In particolare l’intermediario non è semplicemente chiamato alla collocazione di un prodotto di investimento e alla riduzione di eventuali asimmetrie informative tra investors e investees, ma è altresì coinvolto attivamente nel processo di pricing dell’operazione, divenendo così parte attiva della transazione e superando in tal modo una idea di intermediazione particolarmente sviluppata nei mercati degli investimenti tradizionali. Dove è in corso una riforma che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe per l’appunto facilitare l’accesso delle imprese sociali e degli enti di beneficienza ai nuovi strumenti finanziari.

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